mercoledì 25 dicembre 2013

La zattera rischiosa. Buon Natale dal Maestro delle Balene.

yes

Vorrei consegnare al giorno di Natale una visione-riflessione che in questi ultimi tempi mi sta accompagnando, prendendo corpo piano piano. Vedo una zattera, in mezzo ad un mare ora agitato, ora in calma piatta. Non è una visione serena, anzi, si porta un carico di angoscia. Quella dei suoi passeggeri, un gruppo di sopravvissuti. Gente di varia provenienza, per ceto, nascita, età, geografia.
So solo che c'è stato un prima per quella gente, una decina circa di vite. Ciascuna di esse prima perseguiva una sua traiettoria, in parte scelta, in parte motivata dai casi dell'esistenza, dalle alterne casualità, da quell'ingiusta determinazione che traccia il percorso chiamata contesto, ovvero ciò che non scegliamo ma nel quale capitiamo il giorno del nostro personale Natale, il giorno magico che è la nostra individuale Natività. Quel giorno non ci distribuisce in modo equo. La stalla in cui nasciamo è, purtroppo, il primo passo che facciamo. Buono, se il caso ci aiuta, meno buono se, invece, il caso decide di penalizzarci fin da subito.
Non partiamo tutti dallo stesso luogo, con le stesse chances.
Ciascuna di quelle persone, prima, aveva un mestiere, una famiglia, un senso da inseguire o d fortificare, o da cercare.
Poi un evento critico ha mutato la loro rotta. La grandissima nave, chiamata Occidente, su cui navigavano tutti, ciascuno secondo le proprie vite, ha iniziato a naufragare. Allora quelle vite si sono rese conto di essersi, improvvisamente, annodate assieme. I percorsi si sono necessariamente accostati, avvicinati e annodati. La crisi fa questo: ci avvicina, anche spiacevolmente.
Annoda le vite. E i nodi non sono piacevoli, mai.
Ma senza di essi, qualsiasi vela si strappa.
Per cui i nodi sono necessari.
 Il vero problema è quando i nodi non ci sono. Perché i nodi, gli odiosi nodi, tengono assieme.
Non ce ne accorgiamo, ma fanno questo.
Anche se piagano le carni, se pungolano, se costano fatica immensa sia nel momento in cui li facciamo che in quello, dolorosissimo, in cui dobbiamo provare a scioglierli.


I sopravvissuti ora sono su questa zattera, in preda alle condizioni critiche e imprevedibili di questo mare. Non conta più il mestiere fatto un tempo, il tenore di vita, la traiettoria scelta. Ora è questo mare sconfinato e pauroso a determinare la loro sorte.
L'essere annodati spinge questi personaggi a sbagliare. Quelli un tempo più fortunati, incolpano quelli un tempo meno fortunati: sono quelli, col loro peso improduttivo ad avere affossato il veliero Occidente. Essi non hanno pagato il carbone per i motori eppure hanno goduto del privilegio di navigare! 
- Già, - ribattono gli sfortunati, - ma mentre voi pensavate al carbone noi curavamo i vostri vecchi, noi davamo speranza ai nostri figli facendoli studiare perché dessero anche loro carbone per voi!
 Poi ci sono quelli che vengono da altrove, che si sono imbarcati di nascosto oppure chiedendo un permesso sperando in tempi migliori: a loro i sopravvissuti rimproverano di non essere veri passeggeri dell'Occidente. Il loro peso straniero ha fatto naufragare la nave, colpa del capitano benevolo che li ha fatti montare e dato loro persino delle cabine piccole! 
Gli stranieri ribattono che non si appartiene alla terra in cui nasciamo, in essa mettiamo solo radici. Ma come gli alberi protendono, dopo aver messo radici nella terra, il fusto e i rami nell'aria, così ognuno può e deve, se la vita è ingiusta, distanziarsi con dolore dalle proprie radici per trovare aria altrove. 
- E perché mai? - Ribattono i conservatori della zattera, - rimanete dove siete nati!
- E perché mai dovremmo? - Ribattono gli stranieri. - Avete sfruttato, conquistato, colonizzato, violentato la terra delle nostre radici. Se a voi hanno concesso questo, perché mai noi non dovremmo venire a prendere aria da voi?
Nel discutere, i dieci so agitano, si muovono. Desiderano far valere le proprie ragioni e violentemente sganciano i nodi delle loro vite. Così facendo, anziché stare al centro, si spostano verso i bordi della zattera e questa si sbilancia.
Così che questa si capovolge e si sfilaccia.
Chi non sa nuotare, perché non ha potuto imparare affoga.
Qualcuno più forte, si aggrappa ai tronchi.
Ma giungono gli squali e lo divorano.
Qualcuno resiste a galla finché lo sfinimento non lo trascina verso l'abisso.
Tutti, nell'attimo prima di morire, pensano che era meglio, forse, il nodo doloroso della convivenza e del compromesso.
Ma è tardi.
Ora si muore.
L'Occidente scompare.


Non ho voglia di pensieri felici, questo Natale. Sono felice delle belle emozioni che la mia vita, vita da passeggero di zattera, mi ha dato e tolto (perché seppur tolte mi hanno arricchito), felice di questo Natale, perché è il primo con la mia splendida nipote Lidia che ci sorride mentre mangiamo assieme, contenti solo di questo. Perché stare assieme è ora una fortuna, la massima.
Ma non voglio pensieri felici, nè voglio fare auguri che si appoggino ad un senso di casualità e di benevolenza divina. Come se l'anno buono che verrà dipendesse dallo zodiaco o da una qualche divinità che, quando il Mondo è sconvolto da simili tragedie (e penso alla Siria, alle rovine di Fukushima, ai quotidiani genocidi africani), sarebbe proprio ingiusta a donare a noi un anno buono. Dovrebbe prima pensare ad altro.
Se l'anno sarà buono e se questo Natale avrà un senso, gli dei, se esistono, non avranno meriti così come non avranno colpe se non sarà così.
Il destino e il presente li costruiamo. Perché il presente altro non è che il destino a cui abbiamo dato basi ieri. E forse le abbiamo date male, quelle basi.
Perché stanno crollando.
Le assi del veliero cigolano paurosamente e sappiamo tutti che l'Occidente sta affogando, miseramente.
Accettiamo, dunque, i nodi.
Accostiamoci e desideriamo condividere la sofferenza, annodando le vite, senza incolparci gli uni con gli altri, i fortunati con gli sfortunati, gli autoctoni con gli stranieri.
I vecchi coi giovani.
Tutti.
Solo se stiamo vicini e ci capiamo, capiamo che siamo parte di un unico equipaggio, sopportando e cambiando modo di vedere.
Io posso ribadire che ho messo carbone ma dovrò pur riconoscere che se mio nonno, ora, è qui sulla zattera, lo devo a quella donna straniera laggiù, che non dava carbone, ma si prendeva cura di lui.
Devo capire che siamo alberi e che cercare aria, luce e pioggia è un diritto di chiunque.
Che se l'Occidente ha un tempo infettato la terra e le radici altrui, oggi non ha alcun diritto di chiamarsi fuori. Ebbero ragione gli antichi greci: le colpe dei padri ricadono sui figli.
La memoria e la coscienza collettiva non possono venire meno.
Mai!
Non si appartiene all'Occidente perché ci siamo nati dentro. Si appartiene se decidiamo di salire su quella nave.
Il che è costruire un destino di consapevolezza nuova: stare in tanti, annodati, nel momento buono come in quello meno buono.
Ma le cose non mi pare che vadano in quella direzione.
Le varie zattere che ci stanno accogliendo, sembrano destinate tutte a fare la brutta fine di quella in cui mi imbatto ultimamente.
Io lo insegno ai bambini a tenere la zattera in equilibrio.
 A scuola io non voglio che i bambini imparino che 'stare insieme è bello'. Perché è una menzogna.
è bello stare assieme con chi amiamo e chi ci piace.
Ma non siamo destinati a questo.
Stare insieme PUO' essere bello, ma prima di tutto è faticoso.
E necessario.
Questo insegno: che stare insieme è prima di tutto necessario, che è faticoso e poi, in ultima istanza, può essere bello.
Stare insieme è uno scopo.
Da costruire senza mai abbassare la guardia.
Questo auguro a me e a voi, amati amici, per questo Natale.

Non diamo voce alle menzogne retoriche.
Regaliamoci il tempo di capire e cambiare.
Di sopportare anche il nodo doloroso.
E non mi riferisco alla croce cristiana, che mi inorridisce.
Il nodo doloroso è un laico senso di faticosa costruzione.
Sono certo che percepiremo, un domani, di avere costruito.
Faticosamente.
Ma incredibilmente con solidità.

Statemi bene e, se riuscite, non affogate!

Il Maestrodellebalene















lunedì 9 dicembre 2013

Ora che la sinistra è morta, Berlusconi ha davvero vinto.

la sinistra, o meglio quello che sopravviveva (male, malissimo) di lei, è morta. Definitivamente. Lo dice uno che non è andato a queste primarie perché, pur consapevole di essere perdente in partenza, rimane determinato a mantenere vivo quello strano progetto chiamato SEL che, con tutti i limiti che gli si è voluto affibbiare, continua a sembrarmi l'unica proposta realmente innovativa e di sinistra nel nostro paese. Ma ormai anche SEL si è sgretolata sotto l'incapacità di venire accolta, perché troppo a sinistra per essere parte di questa carcassa centrista, corrotta e malsana che è stato il PD in questi ultimi anni.
La vittoria di Renzi è il completamento finale della sovversiva rivoluzione Berlusconiana. Duole dirlo ma Berlusconi è stato l'unico uomo politico da trent'anni a questa parte capace di una vera rivoluzione. Una rivoluzione in peggio, una rivoluzione malata ma tanto forte e potente per mezzi e persuasione da invadere, infettare e capovolgere un sistema di valori, ideali e sistemi di pensiero non solo a livello sociale ma anche politico. Il Berlusconismo è divenuto sistema esso stesso ed ha corroso, inquinato e contaminato proprio la parte avversa aprendovi dentro una duplice ferita, un'ulcera bicuspidata. La divaricazione ha concesso solo due vie: o la sterile critica a Berlusconi per mantenere intatti privilegi di partito; o l'adesione al medesimo stile di pensiero e di tattiche del nemico, cioé Berlusconi stesso.
Scioccati a livello identitario, gli italiani come me di sinistra, hanno tergiversato su questa ferita purulenta. Nessuno ha voluto sanarla, richiuderla, disinfettarla. No.
Abbiamo anzi messo il dito nella piaga che giocava alla poltrona simulando critiche sterili al nemico, sperando che essa ci salvasse: in quel malefico canyon di pus, ci abbiamo messo il centro, ci hanno sguazzato i D'alema, le Finocchiaro, le Bindi, i Prodi, i Bersani.... e la piaga ha fatto cancrena e si è amputata da sola. Dopo un decennio di dolore, puzza, putredine a cielo aperto. Altri hanno intrapreso la via della seconda testa della ferita, quella in cui i berlusconiani di sinistra rottamavano, aggredivano l'altra parte del medesimo male. Renzi viene da qui, da una parte altrettanto malata, populista e rabbiosetta di italiani che al momento di scegliere, qualche mese fa, hanno optato, nel dubbio, per l'altro grande Rottamatore: Grillo. Pericoloso, anzi, pericolosissimo rigurgito fascistoide. Anche lui prodotto berlusconiano. Anticorpo berlusconiano, direi. Una sorta di malattia autoimmune che il sistema del Grande Silvio ha prodotto per poi trovarselo rovesciato contro.
Non che Civati, l'unico dei tre in gioco per queste funebri primarie, fosse cosa migliore. Ma Renzi segna la resa finale.
Non credo che ci sarà un dopo per la sinistra.
La speranza di un ritorno ai valori della sinistra.
Renzi conferma come la vera identità italiana, che la si veda da destra o da sinistra, rimanga il centro moderato d'ispirazione cattolica. L'ennesimo democristiano che, con un'adesione allo stile mediatico e piacione ben confezionato da Berlusconi, conquista l'elettorato.
Lo conquista con questa sbandierata politica del fare, anzi, con la retorica del fare che è perniciosissima perché si basa sul quantificare e non sul qualificare, sul contare e non sul valutare, sul far vedere e non sul far comprendere. La politica del fare l'abbiamo vista all'Aquila, l'abbiamo contestata a Berlusconi ma ora che si tratta si scegliere, abbiamo concesso che essa, inaspettatamente, ci convincesse. Strano, non trovate?
Renzi non è un uomo di sinistra. Non appartiene nemmeno a quell'idea ancora confusa, irreale, contraddittoria a cui molti si appellano parlando di 'una sinistra moderna ed europea'.
Vorrei che mi si dicesse, innanzi tutto, dove è questa sinistra moderna e chi la rappresenta? Blair? Zapatero? Hollande?
Dunque, posto che un Renzi, o chi per lui, s'ispirasse ad uno di questi signori, saremmo a posto?
Se così fosse, confermo la mia idea che questa sinistra nuova non mi piace. Se l'Europa, che come si vede sta virando spaventosamente, di nuovo a destra, cova in sé una sinistra di quel tipo, allora diciamolo. Ancor prima che qua in Italia, la sinistra è morta ovunque.
L'ambiguità con cui Renzi ha risposto su Sky alla domanda sui matrimoni paritari e sui diritti di adozione delle coppie Gay è emblematica del fatto che quell'uomo non garantirà una vera, significativa riforma.
Rottamerà. Ma dovrà cavalcare e appagare l'elettorato che lo ha così potentemente elevato oggi. e quell'elettorato è fatto in massima parte da una borghesia mediamente illuminata, che dal salotto buono arredato con cosine carine e costose comprate al mercatino equosolidale, si sente tanto, tanto vicina ai problemi sociali. Quella che vota Renzi è in massima parte la borghesia patinata e privilegiata dei film di Ozpetek.
E' la sinistruccia dei piccoli grillini in attesa, quelli per i quali Grillo dice cose giuste ma no, Grillo proprio no.
Poi c'è tutta una nuova fascia elettorale. Quella che di sinistra non è. Quella che guarda a Renzi con maggiore schiettezza. Perché non ha da inventarsi che sia un uomo di sinistra. Lo vede per quello che è: un ragazzo saccente, televisivamete ok, che semplifica le cose complesse, che parla sapientemente per spot e che, alla fine, terrà la barca pari perché in questo i democristiani sono storicamente scafatissimi.
Continuerò a sostenere, fino a prova contraria, che Renzi è un uomo profondamente di destra. Empirico, cinico, scaltro.
Machiavelli, suo concittadino, forse ne avrebbe apprezzate certe doti ma non altre.
Nessuna città meglio di Firenze poteva generare una creatura così potentemente ambigua e forte. Una città che non è mai stata realmente di sinistra pur fregiandosi di esserlo. Una città ricca, sontuosa che ha applaudito figli pericolosissimi quali Oriana Fallaci, altra figura terrificante nei confronti della quale si sarebbero dovute prendere ben più marcate e sicure distanze. La Toscana è la terra che ha dato i natali alle insormontabili ambiguità di un Montanelli che ancora oggi ci tocca sentire nominare come grande giornalista senza poter dire, nemmeno da sinistra, che fu uomo ambiguo, colluso, affascinato dai poteri forti (Mussolini prima e Berlusconi dopo....). In Toscana, una terra mediamente benestante e profondamente provinciale, solo la realtà di Livorno fa veramente eccezione. per il resto è terra d'una sinistra salottiera, di potentati territoriali di sinistra pericolosissimi (Siena sia da monito in secula), di leggerezze imperdonabili. Dove parrocchia e circolo Arci sono spesso il paradossale doppio volto d'una medesima faccia.
La terra del tarallucci e vino, che si mobilita ma che non vuole mai essere turbata, i cui equilibri devono rimanere statici e immutati come nei quadri del Rinascimento.
Una terra sottilmente rabbiosa vestita di quiete apparente.
Da qua s'eleva l'ascesa di Renzi.
Da questa terra non sincera giunge dunque l'uomo che oggi ha posto definitivamente fine alla sinistra.
Rottamerà, ne siamo sicuri.
Semplificherà e questo mi atterrisce.
Storicamente la sinistra guarda la complessità.
La destra semplifica.
Ma a guidare la nuova compagine sarà Renzi.
Sarà lui a portarci ancor più lontano da quel senso autentico di apertura, di ascolto, di volontà di mettersi alla pari coi diversi, di prendersi davvero a cuore i più deboli, cioè lontano da quei motori interiori che un tempo, ormai distante, furono chiamati 'identità' di sinistra.
Requiescat in pace.


















sabato 30 novembre 2013

Umida è la terra, e gravide le fosse


Umida è la terra e gravide le fosse
lunghe nei campi come serpi bagnate,
chinata la testa hanno del melograno
scompaginati i rami da forti scosse.
lontane son state le vette lavate
ed ora nel freddo, mi perdo lontano.



lunedì 25 novembre 2013

Io che amo le donne e immensamente gli uomini.

Se la mia generazione, quella compresa fra il 1970 e il 1980, avesse avuto accesso a ciò che le spettava, ovvero al ricambio che le avesse concesso di agire ed incedere sulla società, di collocarsi laddove ogni generazione dovrebbe, ovvero nella gestione della Cosa Pubblica, molte cose forse sarebbero andate diversamente.
A partire dalla questione delle donne.
Invece ci hanno fregato, sprofondati nell'intercapedine che ormai ingoia tutto. In questo paese di vecchi (e quando dico vecchio non intendo SAGGIO ma intendo STANTIO, FERMO), anche la questione delle donne, assieme a tanto altro, è ferma, indietro anni luce.

ok

Oggi si festeggia la giornata contro la violenza alle donne. La giornata del fiocco bianco. Fino a qualche anno fa anche io mettevo il fiocco, quando ancora le giornate tematiche erano poche e celebrare qualcosa poteva avere un senso.
Ora non lo metto più.
Non perché non voglia combattere accanto alle donne per la loro incolumità e la loro dignità, bensì perché in questo inutile tripudio di celebrazioni tutto si appiattisce, diventa azione momentanea, memento fulmineo, lavatina istantanea di coscienza.



Per non parlare di questa usanza così sterile e granfratellesca del Flashmob: ora si fanno flashmob per ogni occasione, dalla più futile a quella più rilevante, in verità piuttosto per assecondare orde di affamati di protagonismo collettivo, per coreografare tutto. Tutto è coreografia, danza, sincronizzazione. Un'immensa trasposizione nel sociale di quel marcio sistema coniato e forgiato da Maria De Filippi che ha trasmesso ad un'intera massa umana, ahimè soprattutto  alle nuove generazioni, il senso che la democrazia sia fare caciara, gridare la propria, ballare anche se non si sa ballare, fare l'eco a quello che grida più forte. Fare massa. Che è l'opposto, secondo me, di ciò che dovrebbe essere la democrazia.



Mi fanno tristezza le attrici seriose che recitano per le donne orribili poesie, le ragazze che fanno i flashmob per sostenere le donne, le persone che oggi sentono potentemente un tema antico e drammatico come fosse cosa nuova, cosa dell'ultima ora.
La subordinazione della donna ad un sistema di pensiero maschilista, quello che ha dominato la maggioranza delle civiltà dalla notte dei tempi, è un tema crudele e arcaico.

Sentire oggi gli interventi in TV, quelli promossi a vario livello dai comuni, quelli online e sui socialforum, mi ha fatto spesso inorridire.
A respingermi non il tema in sé, che è sacrosanto (purché la si finisca di usare la parola FEMMINICIDIO con quella morbosa e compiaciuta voglia di conformismo mediatico che è toccato, tempo fa, a parole come TSUNAMI, KAMIKAZE, TERRORISMO, SCIAME SISMICO).
Nelle forme del trattamento superficiale e sensazionalistico che se ne fa, l'argomento vende bene e distrae dalle profonde e preoccupanti magagne del nostro paese che sta morendo mentre facciamo finta di sperare.
Un paese che non riesce a mettere fuori uso un presidente del consiglio che sulle donne ha operato un'azione di inqualificabile svalutazione mercificante, perché mai dovrebbe sensibilizzarsi un giorno all'anno contro la violenza alle donne se l'ha legittimata fino ad oggi nella codifica di un sistema sociopolitico secondo cui, per anni, le poche donne che hanno conquistato prestigio sono state le più abili con gli apparati genitali e non le loro menti? Ma perché nessuno si è incazzato sentendo la Polverini parlare ieri di femminicidio e sostegno alle donne? Ma se Mara Carfagna è stata per anni ministro delle pari opportunità, dopo aver precedentemente assecondato quel sistema maschilista che collega l'uso-abuso del corpo femminile (giornale, rivista, calendario da garage o bottega del barbiere di serie B) con la pratica quotidiana della cosificazione della donna, perché mai dobbiamo tollerare che a parlarci del rispetto alle donne siano proprio coloro che hanno fomentato la violenza su di esse?



Dicevo che molti interventi mi hanno fatto inorridire.
Perché?
Perché superficialmente oggi tutti gli uomini sono diventati cattivi.
In questa sorta di 'volemoLE bene' collettivo, compulsivo e non meditato, l'uomo, entità maschile, è diventato paradigma.
Paradigma del male, l'uomo.
Paradigma della fragilità sottomessa, la donna.

Io francamente non ci sto.

Così si banalizza, si fa una populistica riduzione a minimi termini sbagliati. Ridurre ai minimi termini va bene se i calcoli son giusti e se l'analisi del problema, complesso, articolato, stratificato, è stata compiuta con serietà.
Io non faccio parte di quegli uomini che offendono le donne. Lo posso sottoscrivere. Tanto meno appartengo alla stirpe dei picchiatori (una volta sola mi sono menato alle elementari con Miria, una mia coetanea, ma ne presi più di quante ne ho date). Nemmeno mio padre ha mancato di ripretto a mia madre o a sua madre. Nemmeno mio fratello. Nemmeno Stefano, nemmeno Daniele, Alessandro, Marco, Nicola e via, via, potrei stendere la teoria dei miei amici, colleghi e parenti che non rientrano in questa riduzione ai minimi termini.
Io non voglio trasformare questa giornata nel 'facciamoci un esame di coscienza, noi uomini siamo sbagliati'.
Ci sono molti uomini sbagliati, anche molte donne probabilmente.
Ne ho conosciuti e ne ho conosciute.
Quegli uomini dipendono e amplificano un sistema di riferimento che rimane maschilista e prevarica le donne.
Io oggi mi metto contro il sistema, non contro gli uomini.
Io non sono un uomo sbagliato. Così come non sono un italiano che ha votato Berlusconi, non sono un italiano che non paga le tasse, non sono un italiano che discrimina gli altri per le scelte di fede o affettive, e sono un italiano che pensa davvero che uomo, donna o transgender non faccia differenza legalmente e sul piano della dignità. Le differenze le amo, ma di fornte ai diritti per me siamo davvero uguali. Tutti. Sono fieramente un bell'italiano, come tanti che ho intorno. Appartengo alla parte sana di questo paese, quella che non ci sta a fare di tutta un'erba un fascio.
Quella che non viene fuori ma che c'è.
Grazie a Dio c'è.

Oggi quella parte sana, fatta di donne privilegiate e uomini fortunati, si dovrebbe riunire in un grande abbraccio protettivo entro il quale fare sentire le donne che hanno subito abuso serene, consapevoli di avere una nuova prospettiva.
Prenderci cura di loro, noi uomini fortunati e voi donne privilegiate. Questo dovremmo fare. Dico donne privilegiate non per polemizzare ma perché sono il primo a riconoscere che se una donna oggi riesce ad emanciparsi e a vivere uno stato di (quasi totale, ma non ancora totale) parità con gli uomini, senza subire alcuna discriminazione o offesa, beh, quella donna è privilegiata (probabilmente per estrazione sociale, per cultura, per area geografica di appartenenza o, cosa ancor più stupefacente, per forza d'animo e coraggio). Privilegio qua non sta per 'aristocratico beneficio' bensì significa'dono, fortuna'.
Nascere in un luogo piuttosto che in un altro, in una famiglia piuttosto che in un'altra, in una fede religiosa piuttosto che un'altra, può essere una sfortuna o una fortuna. Non si nasce tutti uguali, la vita non distribuisce a tutti le stesse chances.

Avrei voluto sentire discorsi misti, che non contrapponessero uomini e donne, ma che accomunassero gli italiani e le italiane migliori in un grande movimento di riflessione e azione sul problema irrisolto della prevaricazione sulle donne.
Ma torno a dirlo: se ci fossimo stati noi, forse le cose sarebbero state diverse.
Noi che nelle classi miste avevamo compagne bravissime, spesso le migliori; noi che con le donne abbiamo riso, gareggiato, studiato, scambiato opinioni, ci siamo amati, lasciati, bisticciati. Senza mai dubitare che un medico donna, un dentista donna, un professore donna, un'autista donna, una superiore, avessero qualcosa in meno di un corrispettivo maschile.
Essere laddove le proprie capacità ci dicono di andare è un diritto senza genere. Noi, della nostra generazione, questo non lo abbiamo solo capito, lo abbiamo interiorizzato.
La mia generazione, che era bellissima, forse la più bella e lo dico senza presunzione, ve lo avrebbe insegnato: a voi più vecchi che anche nel migliore dei casi, al sistema maschile fate riferimento; a voi più giovani che siete stati allevati nell'aria vuota e nell'arroganza dei talk show.

Stasera io amo le donne, intimamente, profondamente.
Ed amo gli uomini, amo i molti che sono nella mia vita, la loro non scoperta complessità, il lato meno conosciuto che attende la luce.
La sensibilità azzurra che li rende persone speciali.
Perdonatemi se stasera mi accosto per solidarietà a questi, capeggiati da quell'uomo straordinariamente umano, rispettoso e moderno che è stato mio padre.
Facciamo un grande falò, che ci scaldi sulla riva del mare in questa fredda e tersa notte stellata.
Per accoglierle.
Accogliere le nostre muse, le compagne, le figlie, le madri, le amiche, le amanti, questo stuolo meraviglioso di speciali viaggiatrici che ancora hanno un bagaglio da portare più peso del nostro. Non per colpa nostra. Ma proprio per questo, per farle sentire in tutto e per tutto viaggiatrici autonome del viaggio, dobbiamo aiutarle a svuotare quel bagaglio, a renderlo esattamente peso come il nostro.
Dobbiamo equilibrare i bagagli.
Conterranno ciascuno oggetti e abiti differenti, ma saranno in peso uguali.
Quando avremo bruciato le eccedenze, nel falò, quando saremo uguali in peso e diversi in sostanza, allora speriamo che le cose cambino davvero, in profondità.
Partiremo allora.

Dedico una stella tutti gli uomini fortunati, alle donne privilegiate ma, soprattutto, alle donne che ancora stanno sotto il peso malato di uomini sbagliati.
A voi dico: sono con voi ma io sono un uomo infinitamente migliore di quelli che avete avuto la sfortuna di incontrare. E con me, a tendervi la mano, ce ne stanno tantissimi.
Qua intorno al fuoco.
Sotto le stelle.

















domenica 24 novembre 2013

Le danze pericolose del tardo autunno.

Come se
del cielo rinfrescato
avesse sfiorato la terra
la guancia
in un gelido attrito.                          

Una stasi d'umido
s'è allargata
simile ad un
capovolto
orgasmo.

Rattrappirsi.
Il faro, nella notte,
un riccio tardatario
agguanta
nel fascio opaco.                          

Ora, sì,
escono ora
dalle dimore celate
d'edera,
da cascate di
verde insidioso.
Escono
le signore cupe
dell'ultim'autunno.

Danze, ci sono,
pericolose
nelle vie montane,
che non si devono
ballare.
Le vecchie ascolta.
Il monito loro
meglio
funziona
dell'aglio.

A guardia
d'offuscati passaggi,
penetra l'osso della madre
terrosa
il passo cadenzato
del disfacimento.

Ne senti l'odore?
Fungo e foglia marcia,
umida terra e legno.
Quando i velari
di nebbia intrappolata
fra i crinali,
s'acquieteranno,
allora
sarà inverno.






lunedì 18 novembre 2013

Un esperimento: nel tempo e nello spazio lontano. L'Inghilterra pastorale.

Il pittore John Constable, indiscusso maestro del Romanticismo inglese, è noto al grande pubblico per un numero ristretto di opere. In genere i manuali di storia dell'arte riportano il suo bucolico 'Mulino di Flatford', e qualche studio delle sue mirabili 'nuvole'.











Fu una vera ossessione quella che lo imprigionò in un costante studio sul tema delle mutevole viaggiatrici dei cieli per tutta la vita.


Ma Constable è un artista dalla produzione sostanziosa. Egli riveste un ruolo centrale negli sviluppi della grande rivoluzione pittorica ottocentesca. Proprio dagli studi sul paesaggio e sulle nuvole, centrati sul rapporto che il trascorrere della luce solare produce sulla realtà fisica, i grandi innovatori del XIX secolo diramarono le loro sperimentazioni che ebbero nomi altisonanti: realismo e impressionismo.
Fra il 1821 e il 1824 le sue opere esposte a Parigi conquistarono i giovani pittori e Delacroix si dichiarò debitore dell'incredibile capacità di analisi ottica dell'artista inglese.
Ma chi era Constable?
Era nato nel Sussex, in una campagna inglese che grazie alla sua pittura è divenuta un paesaggio mentale di portata mondiale al pari della Toscana o della Borgogna.
Quel paesaggio lo nutrì e divenne tema dominante e infinitamente declinato della sua pittura. Fu, infatti, essenzialmente un paesaggista. Diede alla veduta, atmosferica, densa, palpitante, dignità di soggetto nobile.
Sappiate che quando leggete un romanzo di Dickens, ogni qualvolta i personaggi si avventurano nel territorio rurale dell'Inghilterra vittoriana, siano essi David Copperfield o la povera Nelly col nonno in fuga, ebbene, voi state immaginando la scena ambientata in uno scenario che è stato Constable a costruire.
La potente visione verdeggiante di questo artista non solo ci restituisce la visione meno consacrata di un paese, l'inghilterra, che fino al XIX secolo aveva regalato poco al mondo in termini di pittura e quel poco riguardava per lo più Nobili e Signore in parrucca entro scenari arcadici o situazioni grottesche di vita cittadina. Quella del pittore del Sussex è l'Inghilterra pastorale, un territorio autentico, ordinato e antropizzato ma dove la relazione faticosa uomo-natura si compone di tre elementi sostanziali: paesaggio (ed è il verde a dominare), elementi rurali che indicano il lavoro dell'uomo (e le tinte sono quelle dei marroni), il tempo atmosferico (dove luce e nuvole si contendono una gamma che dal grigio scivola fino al cobalto).
Capita spesso di imbattersi in luoghi amati dal pittore, ad esempio un piccolo cottage con recinto presso un boschetto. Quei luoghi ricorrono, più volte, ora in autunno e poi in primavera. Stessi luoghi, sentimenti mutati. La luce e la stagione li vestono d'abiti emozionali differenti. Anche in questo fu precursore di similari ricerche nel campo dell'impressione.

Guardando questi remoti angoli di campagna inglese, si sente un movimento ampio di vento, un respiro naturale che profuma d'erbe, di bacche, di umidità.
La vita di Constable fu tormentata e sfortunata. L'arte non gli concesse grandissime entrate, lui stesso azzardò, dilapidando. L'amata moglie Maria Bicknell, morì dopo aver dato al mondo il settimo figlio. Allevò da solo i figli ma non fu un oculato amministratore del denaro sicché visse anni malinconici e tormentati.
Eppure, nella sua arte, tutto questo sembra filtrato e sublimato nell'enorme alito di cui vivono ampi panorami, vedute di marine nordiche, di colline e pascoli in fuga verso orizzonti ora quieti ora malinconici.
A questo punto vorrei chiudere la riflessione su un grande pittore forse troppo poco conosciuto, riagganciandomi a quanto dicevo poco sopra, sul fatto che Constable ha consegnato ai posteri un immaginario che è diventato un patrimonio culturale e visivo.
Così come Dickens ambienta le sue storie in paesaggi alla Constable, ancora dopo possiamo ritrovarne intatta la poesia nel mirabile panorama sonoro di alcuni compositori inglesi attivi fra la fine dell'800 e la prima metà del '900. Esiste una vera e propria scuola di musicisti 'pastorali' che grazie alle infinite sfumature dell'orchestra sinfonica, seppero descrivere il paesaggio inglese, quello di Consatble, con prezioso trasporto, senso lirico, dolcezza e struggimento. Si tratta quasi sempre di musiche superficiali ma non nel senso negativo del termine. Esse suggeriscono, descrivono, senza cercare altra verità che quella del godimento d'una passeggiata fra verdi colline e boschi.
Sono musiche estetizzanti come estetizzante è quasi per intero la cultura anglosassone.
In questa cerchia di musicisti, si staglia la stazza d'un prolifico e aristocratico compositore, Sir Vaughan Williams. Bene, ora vi chiedo di osservare per circa un minuto, in religioso silenzio, il dipinto sottostante. A seguire cliccate il link che troverete subito sotto l'immagine ed ascoltate ad occhi chiusi la meraviglia della musica.
Concedetevi 11 minuti per voi e per questo rito.

Poi ditemi se occhio, orecchio e cuore non hanno mai trovato più assoluta unità.
Grazie del vostro tempo.









http://www.youtube.com/watch?v=E5tquD727ik




lungomare. Un omaggio alla Versilia e alla sua luce




domenica 17 novembre 2013

La scelta della forma. Tornare al pensiero.

Ogni tanto provo a disintossicarmi da questa droga chiamata social forum.
Stavolta, ho idea, mi concederò un periodo di distanza più lungo e più sensato.
Se è un luogo comune l'affermare che ci stiamo allontanando gli uni dagli altri, che ci buttiamo su relazioni umane virtuali per poi trascurare quelle reali, andrà una volta di più sottolineato che i luoghi comuni esasperano quasi sempre dati effettivamente dimostrabili.
Ho sempre pensato che FB fosse uno spazio rischioso, una lama tagliente che seziona il lecito dall'illecito, il sano dall'insano, il creativo dall'omologato.
Come molte delle cose neutre che ci circondano, è l'uso che ne facciamo a stabilire le loro correttezza etica.
Penso di avere sempre usato FB con intelligenza seppur a volte con eccesso.
Il mio uso personale di FB è sempre stato similare a quello di un blog. A seguito della presa di coscienza che fra coloro che seguivano i miei post, c'era chi desiderava leggere solo il lato di me più artistico, conciliante o poetico, criticando o non comprendendo tutta l'altra fetta di me, ho creato questo blog dove sentirmi più libero.
Ho diminuito le riflessioni complesse su FB perché mi rendevo conto che molte persone non si concedono questo lusso strepitoso che è detto complessità.
C-o-m-p-l-e-s-s-i-t-à.
E lì che, ancora oggi, colgo l'inghippo. Il social forum tende a banalizzare e a rifuggire la complessità: in quell'intreccio di bacheche virtuali, ci ritagliamo profili ad uso e consumo di... Per cui se io sono il maestro poetico e un po' romantico, così devo persistere. Viceversa se, fedele al mio essere, rivelo anche un pensiero critico sostanzialmente feroce, un lato spinoso, un mio essere che contempla anche la critica, la riflessione cupa, ecco che si affacciano le critiche di chi non comprende o chi desidera un 'me corografico, compatto, unilaterale'.
Ma io non ci sto.
Chiunque, oggi, rifugga dalla complessità, è destinato a schiantarsi nel futuro. Essere complessi, come di fatto siamo, ci permette di ricercare e di provare a conciliare le opposte correnti che attraversano l'arcipelago interiore del nostro viaggio. Solo chi è complesso nel guardare e nell'ascoltare, sa essere complesso nel pensare. E dunque può capire il mondo.
A fronte di questo frustrante rifiuto dell'altrui complessità, FB mi rivela costantemente una pletora di persone che sentono, così, di dover comunicare le azioni e i pensieri di ogni momento della loro giornata. In genere oscuro quelle persone, ovvero non tolgo loro l'amicizia ma scelgo l'opzione che mi impedisce di vedere gli aggiornamenti (a volte terribilmente frequenti, anche nell'ordine dei secondi) dei loro profili.
A me piace leggere le riflessioni di persone che conosco o con le quali ho una qualche forma di relazione; non sono moltissime quelle che compongono la lista dei miei amici.
Amo leggere e discutere, al limite, riflessioni, battute, poesie, critiche: MA AMO LEGGERE COSE CHE SIANO IN PRIMIS FARINA DEL SACCO DI CHI SCRIVE (e non le condivisioni di quei terribili e preconfezionati messaggi ora amorosi, ora spiritualistici, ora moralistici, ora falso sapienziali, ora falso ecologisti, ora allarmistici, ora fautori di una controinformazione totalmente sbagliata e per nulla documentata) e poi, soprattutto, amo leggere cose che siano pensate.
Perché bisogna pensare prima di agire e di parlare, ancor più prima di scrivere.
E invece in questo sistema di comunicazione veloce, quasi istantanea che rende FB una chat più che un forum, tutto scorre via veloce; si accusa, si afferma, si giudica, si commenta, si esterna senza meditare, senza fare ricerca, senza contare fino a 10. E si chiede scusa, come faccio sempre io, quando a commento di un'altra persona ci si permette di obiettare (e lo faccio sempre contando fino a 10, spesso desistendo dall'impresa). Perché anche se è un forum, la bacheca è personale e siamo liberi di leggere o non leggere i post altrui.
Io credo che dobbiamo ritrovare la dimensione del tempo: e nel tempo trovare quella del pensare: e nel pensare identificare la dimensione della coerenza. Quando infine abbiamo valutato di essere coerenti, possiamo procedere.
Tutto allora acquista un piacevole senso di spessore: la battuta, anche la più lieve, così come la poesia, come la riflessione politica o religiosa, lo spunto creativo, la grottesca o ilare frivolezza, la condivisione di un'immagine, di un video, di un sogno.
Date a ciascuna di queste possibilità il pensiero ed avrete un piccolo tesoro. Perchè pensando avrete dato loro forma.
Senza pensiero la forma manca e la forma non è solo l'esteriorità delle cose. Nel bene e nel male siamo figli della civiltà classica. In quell'alba di grazia e tragedia, abbiamo appreso che forma e contenuto sono sostanza unica di ciò che facciamo.
Io alla forma ci tengo. Perché essa mi offre quasi sempre garanzia di un pensiero che l'ha organizzata.
Può essere anche sgradevole, oscura, aggressiva. Ma se è una forma, ha dignità di cosa pensata.
Io torno al pensiero e alla forma. Mi ci voglio radicare nel pensiero.
Vi aspetto tutti qua, in questo mare dove passo il tempo ad ascoltare le balene.
Qua, se passate, potrete lasciare qualsiasi traccia, riflessione.
Purché concediate alla mano il riposo che sottende il tempo prezioso del pensare.
Pensiamo, vi prego.
Pensiamo.




domenica 10 novembre 2013

Felici e rabbiosi

Siate felici ma anche colmi di rabbia.
Che con questa luna e con questo sole,
chi è felice senza rabbia, gioisce di gioia sterile.

Siate rabbiosi ma anche saturi di gioia.
Che con questi venti e queste correnti,
chi è rabbioso senza gioia, fa seccare la vita.

Siate gioiosi, d'una felicità consapevole.
E reattivi alla rabbia, rendetela fertile.
Procedete come la tempesta primavera,
che spazza le carcasse ed ammanta il mondo di semi.

Non cercate la quiete delle vette,
perché è facile vivere da aquila solitaria.
Sono le formiche, nel brulicare della vita,
a soffrire e vivere veramente.

Non cercate una gioia posticcia,
quella dei mistici dell'ultima ora.
Quella dei giornalisti barbuti, ricchi e anacoreti.
Non cercate nemmeno la rabbia cieca,
quella degli urlatori e dei qualunquisti,
La rabbia di chi senza pensare ci vuol fare pensare.

Siate gioiosi e rabbiosi,
in egual misura.
Solo così verrà un tempo migliore,
in cui riporremo le armi
e potremo solo danzare.



martedì 29 ottobre 2013

Memorie di un maestro precario: - Maestro! - La terribile chiamata.

- Maestro! -
- Che c'è? -
- Ma te ti vesti sempre antico, sempre un po' cinese.... -
Avevo la camicia alla coreana nera. Tutto qua.

- Maestro! -
- sì? -
- Possiamo farti Filippa Lagherbac? -
Le guardo: sono tre. Biondissimairrequieta, Verticaleletterata, Silentemistero.
- Ho capito bene? -
- Sì, dai, possiamo? -
E' ricreazione, sono seduto sulla panchina. Vorrei controllarli a distanza ma respirare. Arrossisco e sorrido flebilmente. Sto per dire che non importa...che si allontanino.
- Ha sorriso, è un sì! - Esulta Verticaleletterata.
Mi sorbisco l'intero spot del deygam per ben tre volte. Le prime due non sono di gradimento delle attrici. La terza invece è un trionfo.
Muoio dal ridere.

- Maestro! -
- Ohioi, dimmi... -
Alle otto di mattina rispondo sempre con un - Dimmi bello, dimmi cara! -
Alle dieci e mezza già converto in - Su, che c'è? -
A mezzogiorno e quarantacinque è - Ohioi, dimmi! -
Ora è - Ohioi dimmi... - Manca dieci all'una.
- Maestro, ma quando si mangia? -
- Fra dieci minuti se e solo se vi sarete lavati tutti le mani ma vedo che siamo indietro! -
- Eh, ma non ci chiamano! - polemico, Piccolorappersfinente, accusa i due incaricati di chiamare i compagni per dar loro scottex e sapone.
- Nooon è vero! - ribadisce offesa l'incaricata, Verticaleletterata che è sempre corretta, onesta, buona. Ce l'ha tutte, poveraccia, per sopravvivere male in questa giungla di belve.
- Oh, noon è vero! Ora vuoi dirmi che non è vero? - La rimbrotta lui dabbasso, guardandola dalla sua bassezza. Lei lo scruta con occhi pieni di sopportazione:
- Bene, visto che ti ho chiamato per quattro volte e hai fatto finta di non sentirmi, ora te lo dico a modino. Vai a lavarti le mani. -
Sorrido: che signora. Che classe. Lui rosica. Sperava nella piazzata ma Verticaleletterta no! Lei è superiore. Niente piazzata.
Si guardano con una lunga pausa.
Gli occhi azzurri di lui sono furbi, bellissimi.
Le sorride.
- Scusa, sono proprio uno sciocchino. -
Riceve il sapone e lo scottex e a tempo di hip pop se ne esce di classe.

- Papà! -
-Eh????? -
- Oh dio, scusa Mestro, a volte mi scappa! Mi confondo. -
- Mi ci mancherebbe questa. -
Mi squadra malissimo.
- Che vorresti dire, scusa? Devo offendermi? -

- Maestro! -
- siiiiiiiii? -
- Ci porti in gita a Micene quest'anno? -

Poi penso a tutti noi di fronte alla porta dei Leoni, alle mura poderose degli Achei e nel tholos spettacolare della tomba di Atreo e penso: però, sarebbe mica male!


mercoledì 9 ottobre 2013

Perché l'Armonia ha a che fare con la guerra

Oggi riflettevo sulla musica. Sul concetto di armonia. Su ciò che essa effettivamente è e ciò che essa significa in un traslato simbolico. Poiché da quando faccio il maestro ho iniziato un percorso personale sugli archetipi, la mia testa va subito alle radici del pensiero occidentale. E, quasi sempre, mi trovo a ragionare di miti.
Cosa è l'armonia? Tecnicamente è il sostegno musicale generato da almeno due suoni sovrapposti in verticale che imprime ad una melodia un determinato effetto. La cosa più semplice da capire nel complesso mondo dell'armonia è il celebre 'accordo', l'unione di tre suoni in contemporanea, tre suoni in verticale, appunto che fra loro siano compatibili. A seconda dei suoni scelti e delle distanze fra loro intercorse, l'accordo armonico sortisce effetti emotivi diversi, positivi o negativi, tristi o allegri, cupi o luminosi. L'occidente ha ridotto questa dicotomia secondo due categorie modali, il modo maggiore e il modo minore. Ma gli antichi greci avevano capito che si potevano evocare molte più sfumature. Ora, senza entrare nel tecnico, vorrei fare notare che già nel parlare di suoni compatibili si ragiona di 'relazioni'. Non tutte le note stanno bene assieme se suonate nello stesso tempo. L'armonia è un insieme di note che, suonate assieme, producono un effetto soddisfacente.
Se mi passate un paragone, dobbiamo immaginare la melodia come una strada sospesa, curvilinea, e l'armonia come l'immensa struttura di piloni verticali che la regge. La distanza regolare fra i vari piloni, è il ritmo. Melodia, armonia, ritmo sono le tre parti fondanti di quel miracolo chiamato musica.
La melodia nasce nelle parti molli e sensibili del nostro corpo: la generiamo con il cuore, con lo stomaco, con la parte più superficiale  libera della testa. Ma l'armonia, e anche il ritmo, sono cose più cerebrali. Esse non nascono mai spontaneamente. Sono frutto di un'elaborazione. Tanto che la melodia può essere solo una (infatti è determinata da una sequenza solo orizzontale di suoni), mentre l'armonia necessita di almeno due suoni sovrapposti. La voce umana come qualsiasi altra voce animale può intonare una melodia, mai un'armonia. Per creare quest'ultima ci vogliono almeno due persone che cantino note diverse e, ripeto, compatibili. Dirò di più: la stessa melodia se sorretta da diverse armonie, può cambiare radicalmente il suo aspetto e i suoi effetti.
Ora, questo effetto della compatibilità ha molto a che fare con la relazione. Se ci pensate, essere in armonia con gli altri significa trovare compatibilità. Produrre un effetto soddisfacente. E qui nasce il grande fascino e la grande scommessa dell'Armonia sia come entità musicale che come simbolo della nostra complessa realtà di vita.
Forse ricorderete che Armonia nacque, quale dea, dall'unione di Ares, dio feroce della guerra e dell'aggressività, e di Afrodite, dea della seduzione, della bellezza, della fecondità spontanea.
Essa fu dunque la tregua fra odio e amore, emblema di una compatibilità che altrimenti si renderebbe inattuabile. Eppure, come figlia di cotanti genitori, Armonia ereditò da entrambi alcune caratteristiche. Bellezza, determinazione, ma anche bellicosità. Il mito non lo dice ma lo svela un tardo scritto latino, il De Nuptiis Philologiae et Mercurii (le nozze di Mercurio e Filologia) di Marziano Cappella dove Armonia viene rappresentata al centro di sfere rotanti, ciascuna contenente una musa, vestita di un'armatura di metallo sonoro. Essa dirige le sfere mettendole in condizione di risuonare meravigliosamente fra di loro. Il metallo di quell'armatura emette suoni piacevoli ma è pur sempre una veste guerresca. Perché produrre armonia, crearla e darle senso è azione difficoltosa, a volte ardua, sfiancante. L'armonia non è insita nelle cose del mondo.Quando alcune di esse entrano in risonanza positiva, allora creano armonia. Sono melodie che per un caso o per volontà, si dispongono secondo giuste distanze e risuonano in modo soddisfacente. Viceversa ogni singolo elemento, è in sé una melodia concentrata su se stessa. Magari bellissima, ma votata all'autodeterminazione. Perché tutto in natura tende all'autodeterminazione, che è qualcosa di più della semplice spinta alla sopravvivenza di cui ci parla la Scienza. Autodeterminarsi significa sopravvivere ma anche affermare se stessi, imporsi, distinguersi. Questa naturale propensione interessa i vegetali come gli animali e in massima parte gli uomini. Grazie a questa spinta melodica a essere unici, gli uomini creano cose meravigliose e compiono terribili azioni. Figlie dell'autodeterminazione sono l'arte e la guerra, il pensiero complesso e la perversione. In sé, dunque, essere melodie non ha alcun connotato etico. Si tratta di una condizione neutra che, inevitabilmente si converte in sopraffazione se non è regolata. Pensate agli alberi. Se umanamente disposti in filari distanziati ( e ritorna il discorso della distanza fra le note) crescono in armonico rispetto. Viceversa i più forti e tenaci si imporranno soffocando gli altri.
L'armonia è un processo del pensiero. Essa non è in sé esistente. La dobbiamo tessere, costruire, osservare e proteggere. Ma costantemente alimentare. Poiché basta spostare di poco una distanza, accorciarla o allungarla, per fare precipitare la strada nel vuoto.
Oggi dunque riflettevo su quanto musica e vita si intreccino. Quanto questo elemento, l'Armonia appunto, sia potentemente simbolico. Pensavo a me, a quanto a volte io stesso sia stato fautore di armonia e quante, invece, colpevole di crolli abissali.
Pensavo a quanto sia delicato il processo di chi insegna nel trovare le giuste distanze con cui far risuonare armonicamente classi dense di melodie, melodie forti, delicate, sottili, roboanti, rallentate o accelerate, eppur sempre tutte votate all'autodeterminazione. Ho pensato ai miei 25 allievi, e mi sono visto una tastiera di infinite note. Dar voce alle melodie è prioritario come pure metterle in condizione di avere distanze soddisfacenti affinché esse producano armonia.
Così penso che, infine, quest'artificio del pensiero possa anche chiamarsi pace. Concetto altrettanto complesso, abusato e innaturale. Ma qui si entra in altri miti e lascio cadere la similitudine.
Mi piace concludere ricordando che Armonia fu data in sposa a Cadmo, re di Tebe. Una delle loro figlie fu Semele che, unitasi a Zeus, ne fu folgorata. Il feto da lei portato in grembo fu cucito nella coscia di Zeus fino al compimento del nono mese. Allora il Dio sommo partorì Dioniso, dio misterioso dalla vita complessa, legato al vino, all'ebbrezza, allo stato allucinatorio. Ma dio anche della pazzia, del piacere sfrenato, dell'abbattimento della regola. Trovo meraviglioso che questo Dio e non il vanesio, limpido eppur vendicativo Apollo, dio della musica, sia nipote di Armonia. Essa, come insieme regolato di relazioni, doveva generare discendenze destinate a rompere quelle stesse norme senza le quali siamo destinati ad un'eterna guerra. Perché, il mito ce lo dice, oltre che della bellezza, Armonia fu figlia della guerra.






lunedì 30 settembre 2013

Un'idea della politica utopistica?

l fatto che noi italiani non ci stiamo minimamente preoccupando per la crisi di governo può dire una serie di cose, non compatibili l'una con l'altra:
1 che siamo i soliti superficiali
2 che siamo talmente immersi in una crisi perdurante, anche di tipo
governativo, che non percepiamo alcuna modifica sostanziale tra prima
e dopo crisi del governo.
3 che abbiamo priorità impellenti, tipo sopravvivere, per cui ormai
abbiamo tirato i remi in barca consapevoli che il Paese e il suo Governo
sono due entità distinte.
4 che solo una guerra, una catastrofe, una pericolosa scintilla possa
radere al suolo questo stato incivile di cose.
5 che siamo più profondi di quanto si pensi, che diffidiamo dei movimenti e
del concetto banale di 'democrazia partecipat(iv)a' ma che al contempo
non sappiamo come credere nella 'democrazia rappresentativa' visto che
non ci rappresenta per nulla.
6 abbiamo capito che nemmeno il potente strumento della manifestazione
di piazza sortisce più alcun effetto dal momento che quelli contro cui
protestiamo sono i primi a dire: bravi, fate bene a protestare. E'
democratico protestare.... e con questa retorica della democrazia ormai
sciorinata in ogni dove e senza cognizione, i politici sono riusciti nella
titanica impresa di demolire il senso altissimo e spinoso di quel concetto.
7 ci appelliamo alLa Costituzione così come ci si appella alla Bibbia.
Affermiamo il vero nel dire che è un testo luminoso, combattiamo per
difenderla ma poi? Non siamo capaci di tradurla nel quotidiano,
modernizzandone le istanze scritte più di 60 anni fa. Come se essa
valesse solo per i politici. Predicando bene e razzolando male. Proprio
come la Bibbia appunto.
8 abbiamo bisogno dei rottamatori, dei guru, di quelli che ci dicono che
'bisogna agire e non parlare'. E nessuno dice che prima di tutto bisogna
'pensare'. Perché agire senza pensare è come parlare senza fare. E
quando dico pensare dico: riflettere, meditare, analizzare, compenetrare,
assorbire in profondità, avere lungimiranza.

Io voglio un paese guidato da una classe intellettuale fatta di teste etiche e pensanti. Che non accontenti 'la gente', orribile concetto quello di 'gente'. Così si va nel populismo, nella demagogia facile, e su quel fronte abbiamo già ampiamente dato. Necessitiamo di una cosa alta, di una istituzione illuminante. E nemmeno abbiamo bisogno di una politica che nasca dai movimenti di base poiché questi servono a punzecchiarla la politica, e fanno benissimo, servono a metterla di fronte allo specchio perché si ravveda se non si attiene ai programmi, ma non devono avere pretese di sostituirsi a chi deve guidare. Perché una classe dirigenziale dovrebbe avere competenze, specificità e qualifiche tali da non rendersi intollerabile e disgustosa a tal punto da farci pensare di poterci sostituire ad essa.
La vera politica, che io vorrei, è quella che si fa carico dei bisogni primari della cittadinanza tutta, ovvero la sanità per tutti, l'istruzione per tutti, i diritti sacrosanti del lavoro. Che garantisca i diritti civili in senso moderno, senza alcun retaggio religioso ma mossa da una percezione umanistica e inoppugnabile dell'essere umano e dell'ambiente come 'entità' di rispetto integrale. Punto. Di lì in poi si entra nel nulla, o nel dettaglio.
La politica, una volta presasi cura di questo, deve innalzare la cittadinanza, migliorarla, aprire le teste, indicare orizzonti nuovi e alti. Non deve, viceversa, ascoltare quell'informe borbottio qualunquista che chiamiamo 'gente' e agire di conseguenza. Per quella via, si è visto quali catastrofi, perché di catastrofi si tratta, siamo stati capaci di raggiungere.

Quest'anno leggerò ai miei alunni la Costituzione e farò in modo che capiscano che il primo luogo dove essa deve essere applicata è la nostra classe, il nostro paese, il nostro spazio vitale quotidiano. Solo quando saremo cresciuti nell'assorbimento forte e profondo di quel testo, torneremo ad avere il diritto (che tutti abbiamo perso, tutti!) di lamentarci o di ignorare anche questa ennesima crisi di governo.


mercoledì 25 settembre 2013

Memorie di un maestro precario: saluti, pigrizie, pronomi, parolacce e Paolo Uccello.

- Maestro, non mi hai salutato nemmeno stamani! -
- Ma veramente ti ho detto buongiorno, sei tu che non mi hai sentito. -
- Eh no, io sento tutto e non me lo hai detto. -
- Ma come? -
- Dimmelo, su, dimmi 'ciao' -
La guardo, minuscola come lo scorso anno, ma tenace e guerriera. Le sorrido:
- Ciao! -
Allora mi abbraccia forte e poi mi guarda seria:
- Domani non te lo scordare! -
Si allontana con le sue amiche.

- Maestro, quando si mangia? -
- Tra un po', ora concentrati. Stiamo facendo grammatica. -
- Ho fame. -
- Bene, analisi grammaticale di 'Ho fame' - Lo fisso severissimo.
- No, no, scusa, mi ero sbagliato. Anzi, non ho fame per nulla! -

- Allora, ripassiamo i pronomi personali. -
- Maestro, - alza la mano Distrattoconfuso, - NI dici a questo qua, - indicando un compagno molesto, - di stare zitto? -
..... pausa dolente del maestro.
Silenzio.
La classe mi guarda. Lui mi scruta e mi vede tentennare nel mio ruolo. Non capisce.
- Maestro? - mi invoca, vuole che prenda posizione sulla sua richiesta. Effettivamente Sfasatosensibile lo ha tormentato per più di dieci minuti.
- Va bene, - inizio, - NI dirò qualcosa. -
- Bravo. -
- Posso chiederTI una cosa? -
- Certo maestro, sono qui per TE. -
- Quel NI, cosa vorrebbe dire? -
- A lui, pronome personale no? Non si stavano ripassando? -
Sono molto soddisfatto.

- Maestro, quel bambino mi ha detto che sono una gran figlia di Puttana - piangendo.
- Oh, - esclamo contrito e imbarazzato, circondato dal carosello di colleghi e alunni della ricreazioni in giardino, - intervengo subito ma non occorre ripetere queste parole. -
- Ma se non te lo dicevo e che so.... ti venivo a dire: 'quel bambino mi ha detto una brutta parola', mi rispondevi che non era nulla di grave. Tanto ti conosco. -

- Maestro, quando noi saremo grandi tu sarai già morto! -
Aridaglie! Già lo scorso anno era saltata fuori questa cosa. Non potendo fare alcun tipo di scongiuro poiché sarebbe alquanto diseducativo, mi lancio sul professionale sconfinando nell'area di Giulia, la mia collega di scienze e matematica.
- Scusate, bambini, ma se io ho 38 anni e voi 10, quando voi avrete la mia età....-
- Oh mio dio no! - Esclama Provocatricecritica, - non iniziare anche te con i problemi ora! Va bene, va bene, non morirai, sei contento? -

Guardiamo intensamente la scena di San Giorgio e il drago di Paolo Uccello. Li ha incantati. Si susseguono, no anzi, si accavallano, le loro osservazioni, le opinioni, le letture.
- Maestro, - dice Altissimagentile, - questo quadro mi piace. Sembra di stare dentro una fiaba. -
- Hai proprio ragione, anche a me fa questo effetto. -
- Ci sono molti particolari, - aggiunge Provocatricecritica, - e le nuvole a destra fanno  paura, aumentano la paura! -
- E anche la grotta! - Aggiunge Pignoloridente, - mi fa un po' ansia! -
- Ma sulle ali del drago ci sono delle decorazioni - Esclama Biondinatenace.
- Sembra un pavone, il pittore ha voluto rendere bello tutto in questo quadro, anche il drago! - osserva Scrittriceloquace.
Ah, se Paolo Uccello avesse saputo quali occhi attenti e profondi avrebbero guardato il suo capolavoro! E se solo gli storici dell'arte, ogni tanto, ascoltassero i bambini!




lunedì 16 settembre 2013

Perché non amo il Piccolo Principe.

Stasera ho capito perché non amo il Piccolo Principe.
Perché è scritto con l'intento di insegnare, di dare messaggi. Quando incappo in un libro scritto programmaticamente per fare questo, anche se intriso di poesia, io sento puzza di presunzione. Sottrae alla casualità dell'incontro, dal quale si impara e si apprende inaspettatamente, l'aspetto più bello e importante: il caso, appunto.
Nel libro di Saint- Exupery tutto è stato pensato a priori, lo stereotipo abita sotto i personaggi dell'incontro e sovrasta la loro valenza simbolica. Ad ogni passo, l'autore sembra dire al giovane lettore: ecco, ora ti sto insegnando qualcosa sulla vita! Ecco, questa cosa così ben detta devi farla tua, ci devi cavar fuori una lezione.
Diffido degli scrittori dell'infanzia che sono convinti di essere così vicini ai bambini da potergli insegnare cose sul mondo....
Uno scrittore che scrive per i ragazzi, deve innanzi tutto pensare di essere lui il primo ad imparare qualcosa, consapevole del tragico evento che risiede nell'essere cresciuto, inesorabilmente. C'è una distanza incolmabile fra lui e quel regno inquietante che si chiama infanzia. Anche il moralistico Collodi, nel concepire quel capolavoro ambiguo e potente che è Pinocchio, era partito con l'intenzione di educare... ma qualcosa gli sfuggì di mano. Grazie a Dio. Pinocchio incappa nel male, inciampa, fa incontri, incontri luminosi e incontri terrificanti. Prova ad imparare ma non vi riesce sempre. Anzi, ricade nel proprio errore. Chi lavora coi bambini sa che questo è vero. Il suo viaggio ha realmente in sé la forza formante della casualità.
Nel mondo mieloso e programmato del Piccolo Principe, invece, noi adulti ci gongoliamo perché attendiamo ad ogni tappa cose che già sappiamo e che, se devo dirla tutta, non sono nemmeno così vere.


sabato 7 settembre 2013

Digiunare, perché?

Mi intristiscono i digiuni.
Sia che siano religiosi sia che siano simbolici. 
Nel primo caso, c'è da chiedersi perché mai un Dio che permette una guerra (perché o 'sto Dio ci ha dato la libertà o ce la fa gestire a singhiozzo secondo l'estro, il che andrebbe chiarito) dovrebbe poi ripensarci impietosito da alcuni fedeli che per un giorno non mangiano; nel secondo caso, mi sembra che sia di cattivo gusto che un buon borghese occidentale si conceda il lusso di non mangiare per un giorno per esprimere dissenso verso il 'silenzio dei potenti'. 
Quando sento dire che digiuniamo perché siamo contro la guerra in Siria (ed io lo sono, fermamente, si intenda), mi viene da accostare queste due immagini, e chiedere: non sarà che per lenire il fastidio della prima (delle immagini che, ahimè, sono tragica, insopportabile realtà), dimentichiamo la seconda (altrettanto terribile e atroce?). 

Forse dovremmo scendere in piazza e gridare, perché il silenzio sbagliato si abbatte con le grida e con l'agire. 
Non con una dieta giornaliera. 
Perdonatemi, ma sento questo. 
Se sbaglio, aiutatemi a capire.
E' bello sentire la fatica quando sai che va nella direzione giusta. Quando fai un lavoro che, nonostante le umiliazioni costanti e latenti del precariato, vale comunque la pena di quella fatica e di quelle umiliazioni. 
Ripartiamo, anche quest'anno, ma per me c'è un'emozione in più. La continuità.
Provo per la prima volta la sensazione confortante di essere nella stessa scuola, ritrovare colleghi stimati, relazioni già avviate e soprattutto i nostri 24 bolidi furenti, fiori del bel giardino misterioso che, almeno quest'anno, non ho dovuto abbandonare.
E' come sapere di partire per un nuovo viaggio con una ciurma conosciuta. Ma gli orizzonti si allargano e le terre da esplorare si fanno ancora più estese. 
Di nuovo in viaggio per mare, di nuovo in ascolto, di nuovo a coltivare. 
Bello, bello sentire questa magia. 
Questa voglia di iniziare. 
Questa voglia di primo giorno di scuola.

Questo bel dipinto di Bruegel sembra esprimere compiutamente il senso di quello che sento, ora. In primo piano la certezza di una terra sicura, dove arare diviene parte di una procedura conosciuta eppur sempre modellabile, mutevole. Un contadino coscienzioso sa che le stagioni si trasformano così come muta la terra e che il proprio bagaglio di conoscenza va al servizio di quei cambiamenti, ad essi si adegua senza imporsi. Seminare significa comprendere il cambiamento e saperlo rendere fecondo.
Da questa balza sicura si spalanca l'orizzonte di un nuovo viaggio: il vascello è pronto, manca solo di issare l'ancora. Isole, scogli, sole e nuvole tempestose. Questo è lo scenario che accoglie il nostos, il viaggio. Un'esperienza antica e necessaria. Per affrontarlo, in quella barca stiviamo ciò che si è seminato e raccolto. Lo portiamo con noi. Quello ci servirà a sopravvivere, a vivere, ad andare avanti. Si parte alla ricerca di nuovi semi, nuovi pigmenti e spezie da riportare. Perché la nostra stiva sia sempre ricca, in crescita, pronta ad accogliere.
E se l'orizzonte ci invita, noi andiamo. 
Senza paura. 
Ma con molta emozione.

giovedì 15 agosto 2013

Pittori da scoprire: l'audace dimenticato. Altobello Melone.


Guardate, vi prego, questo dipinto. Lo trovo di una bellezza sconcertante. Ci raggiunge dal primo Cinquecento come uno schiaffo, una testimonianza di verità tra le più belle e singolari di tutta la storia del ritratto.
Si tratta di un'opera nota come 'La coppia degli amanti', della quale il pittore ha redatto più di una versione. Questa è quella del Museo delle Belle Arti di Budapest.
L'artista per molti è poco noto. Il suo nome è rimasto celato nei meandri della storia ed è conosciuto soprattutto dagli studiosi. Si chiama Altobello Melone, nacque a Cremona negli ultimissimi anni del Quattrocento quando le innumerevoli civiltà artistiche italiane sembravano un galleggiante mosaico di vitalità e voglia di primeggiare in bellezza. Il nostro paese era un continuo scintillio di variazioni su temi e suggestioni che correvano freneticamente per tutta la penisola. L'Italia era allora un'idea e una sagoma geografica. Non poteva essere altro che questo poiché la sua superficie era frazionata di stati, satelliti e città in guerra o in aperta gara.
Altobello, nascendo a Cremona, fu apparentemente distante dai centri maggiori ma ne subì l'influenza senza venirne eccessivamente contaminato: questo lo rese colto ma spregiudicato, educato eppure libero di inventare. Da Milano lo raggiunse un certo naturalismo leonardesco proteso su sfocate lontananze e distese fatte d'acqua e corpuscoli aerei; a Brescia, ove lavorò con il grande Romanino, costruì una visione luminosa e piena, gustosamente curiosa dei dettagli del vivere quotidiano; da Venezia, l'arrogante Serenissima, assimilò un gusto carnale del colore e una sprezzante trascuratezza del disegno.
Guardate ora questo capolavoro: si capisce subito che il pittore è una mosca bianca nell'universo artistico di allora tutto proteso ad un ideale assoluto di bellezza aulica. Qua siamo di fronte ad un pittore anticlassico, che viene attratto dall'inconsueto, dagli aspetti meno convenzionali della vita. In questo fu aiutato dagli esempi di pittura tedesca e fiamminga che in quei tempi circolavano in Nord Italia. I due giovani, seppur in qualche modo vestiti d'eleganza, sembrano rampolli svitati, i meno preferiti, i secondo geniti poco considerati di qualche buona famiglia mercantile. Hanno fatto appena l'amore o lo faranno entro poco. Ma non gioiosamente, saranno come offuscati dalle loro inquietudini, magari da una qualche droga consumata assieme, in una intimità che profuma di fuga, disperata ma orgogliosa, dalla durezza della vita. Questi due giovani non anticipano forse intere generazioni di veri o presunti dandy, di poeti maledetti, di bohemien scapigliati? Possiamo spingerli fino ai recenti decenni delle contestazioni e li troveremmo paurosamente attuali. Bellissime le parole di Mina Gregori quando di Altobello Melone, a proposito di questo dipinto, sottolinea:

"l'impasto inestricabile di miseria e nobiltà che s'impersonano in questo malinconico Ruzzante e nella sua compagna."

Questo tipo di ritratti mi colpisce sempre perché ha il potere di toccare in modo commuovente i sottotesti della vita, i 'non detti' che a volte sono ciò che dona massima consistenza all'esistenza umana.
In quel sapiente mixage di malinconia e fiera autodeterminazione, nel consapevole sentirsi diversi nel destino ma anche nell'abbandono ad un abisso di rischi, i due amanti giovani del dipinto ungherese sembrano chiedere diritto di asilo oppure, invece, sdegnano il nostro guardarli, certi che nell'assunto borghese che ci connota saremo incapaci di comprenderli. 
La grigia consistenza di tenebra che li avvolge li consegna così alla storia, belli e dannati, non inquadrabili, fuori dalle facili etichette. Io li amo profondamente questi due amanti giovani e sfortunati, la loro umanità sfocata mi appartiene, mi pungola come una sofferenza sottile. 
Per questo penso che all'arte occorrano sempre menti come quella di Altobello Melone, divergenti e capaci di andare oltre al canone per cogliere la vera vita. Terribile e commuovente.

lunedì 12 agosto 2013

La maledizione di Horton

Guardava nel buio, attraverso quella coltre caduta come una maledizione sul suo orizzonte. Metteva a fuoco uno
spiraglio che non concedeva altro che vaghe idee. La distesa piatta che chiamiamo vecchiaia, era arrivata spietatamente a reclamare la sua monotonia. Sottraendole quel mezzo che le era stato più caro d'ogni altro, la vista. Lei che aveva letto, viaggiato leggendo, imparato leggendo. Lei che attraverso l'occhio, tramite il gesto consumato della lettura, aveva allenato la sua testa meravigliosa rendendola eternamente giovane e sveglia. Ora, quella giovinezza mentale le rendeva ancor più odioso dover vagare a tentoni, spaventosamente sospesa sul nulla, in quella landa piatta di bruma che si chiama vecchiaia. In essa, lei si diceva, anche raccogliere i frutti di ciò che si è seminato può diventare amarissimo.

sabato 10 agosto 2013

Il giardino incantato di Dürer.

Proprio oggi sono incappato in questa bellissima illustrazione. Si tratta di un acquarello del disegnatore inglese William Callow che nel corso dell'XIX secolo ritrasse l'antica casa del pittore Dürer a Norimberga.


In quella città aveva vissuto, infatti, il grande artista tedesco del Rinascimento. E in quella città era sempre ritornato dopo i suoi importanti viaggi compiuti soprattutto in Italia, dove gli artisti nordici venivano per imparare i segreti e le tecniche della grande arte.
L'acquarello di Callow ci presenta il grande edificio simile ad un maniero fiabesco, quasi miyazakiano, inserito in un contesto urbano vivace, di legno e intonaco, popolo brulicante e carri gonfi di merce. Il tutto stagliato contro un cielo tinto con quell'inconfondibile azzurro che solo il XIX secolo è riuscito a creare e che io, appunto, chiamo 'Celeste Ottocento'.
Ora, perdendomi nei minuziosi dettagli di questa illustrazione di viaggio, mi immaginavo la vita là in quella casa gigantesca, già ipotizzavo un ventaglio di storie possibili. Sì, perché questo genere di preziosi disegni hanno quel potere tutto particolare di darci l'avvio per una, dieci, cento narrazioni.
Proprio nel riflettere sulla tecnica dell'acquarello, ecco che dalla casa di Dürer son passato a Dürer stesso. Ho salito le scale dietro i graticci, mi sono immerso nelle penombre. Per le vie i carri si sono azzittiti e dall'Ottocento di Callow son rifluito nel fangoso e rivoltoso mondo della Germania di primissimo Cinquecento
Eccolo là, nella sua stanza di lavoro. Dürer. Egli era bellissimo. I lunghi capelli ben curati e impomatati per mantenere i boccoli piombati. La barba curata coi baffi intorno alla bocca carnosa.

Dürer era un narciso seppur animato da un moralismo inquieto che sapeva cogliere di sé, oltre quella bella superficie, i lati d'ombra, le malinconie, l'essenza di una vita creativa incentrata sulla solitudine. Questo ossimoro fra autocompiacimento e percezione dolente dell'esistenza, trapela in un meraviglioso disegno in cui l'artista si ritrae nudo.
L'omaggio evidente alla statuaria classica e al primo Michelangelo, si compenetra con una sorta di cupezza emotiva. Quest'uomo sapeva di essere bello e sapeva di essere profondamente tormentato.
Fu un eccelso pittore. Viaggiò molto assorbendo spunti molteplici. Si dedicò all'acquarello principalmente per due motivi: appuntare dettagli di viaggio (frammenti di paesaggi, particolari di elementi naturali o rurali) oppure studiare la natura delle cose. 
E' quest'ultimo aspetto che mi affascina di più. Scorrendo i meravigliosi disegni acquarellati dei taccuini Düreriani, si entra in un giardino di meraviglie dove accanto a zolle erbose descritte con verità commuovente, appaiono leprotti dal pelo screziato....


Dürer è stato paragonato al suo contemporaneo Leonardo per questo amore per i dati naturalistici. Io credo che egli superò Leonardo nella precisione ottica con cui seppe cogliere l'intima verità delle cose da lui osservate. Pur non avendo il piglio dello scienziato, egli procedeva in modo rigoroso. Le sue possono a tutti gli effetti essere considerate tavole botaniche e zoologiche. 
Si guardino il meraviglioso Granchio o il Cervo Volante. Alla realtà tangibile della loro natura si unisce uno sguardo complice, quello di un pittore che ama il soggetto trattato.

 


L'arte di Dürer si popola così di animali e piante vivi, capaci di restituirci il senso di una natura palpitante che viene indagata, scandagliata ma sempre amata. Essa è la fonte primaria di ispirazione. L'arte non può che imitarla.

 

Dürer coglie gli animali nelle loro azioni abituali. Ecco dunque scoiattoli che rosicchiano delle ghiande, un porcospino dall'aria assonnata, un piccolo cinghiale che sembra impaziente di scappare via, un barbagianni con l'espressione stralunata.


Si tratta di un patrimonio davvero singolare e prezioso che ci restituisce l'immagine di un nuovo mondo, quello che apre la strada al tempo che chiamiamo 'epoca moderna'. 
In quella casa splendidamente regalataci dal tratto modernissimo di Callow, tra le mille storie possibili, c'è una narrazione fatta di occhi e pennelli, di osservazione e sentimento, di animali.
Un giardino incantato, ennesima grazia concessa a noi dall'estro dei grandi artisti.