domenica 30 giugno 2013

Le divinità della musica,

Abbiamo bisogno della musica.
Chi studia le origini del tutto, ha ideato una somma bugia, ovvero che l'uomo l'abbia inventata, la musica, prima col ritmo e poi col suono, per celebrare la caccia, per accompagnare la poesia.
La musica esiste ancor prima dell'uomo. Perché, prima di tutto, ci fu il suono. Fu la voce di una divinità che parlò per dare nascita al cosmo. E la voce è suono e il suono è musica e il suono è fiato e dunque vita. Musica e vita sono fatte della stessa sostanza.
Le antiche civiltà concessero alla musica divinità speciali, malinconiche e vaganti come Orfeo, incantatrici e sfortunate come Marsia o Pan, presuntuose e potenti come Apollo.  Nessuna di esse è stabile, esse procedono ondivaghe, fluttuanti, sottoposte a continuo mutamento. Così è infatti la costituzione della musica, perenne movimento fisico ed emotivo.
Molti miti riconnettono la musica alla saggezza e all'astuzia: fu Athena, ad esempio, a creare il flauto prima di rinnegarlo, e Mercurio, il dio volante, scaltro e furbissimo, creò la lira dal guscio di una testuggine dopo una notte di bagordi; anche l'induista Sarasvati, la fluviale 'colei che scorre', presiede tanto alla saggezza che alla musica: esse, come il fiume, sono correnti che fluiscono mai uguali a se stesse.
L'estatico dio azteco Xochipilli governava il suono melodioso ma anche il raccolto e l'amore, nonché il gioco, ricordandoci che la musica è anche questo: fioritura, erotismo, divertimento.
L'egiziana Hator, archetipica Grande Madre, gioiosa e amorosa, contendeva il predominio sul regno dei suoni a Toth, il misterioso dio della scrittura e della magia, colui che con la testa d'Ibis canta alla luna e trascrive il giudizio di Osiride per l'accesso Duat, il regno dei morti: la musica da tempi immemorabili accompagna i riti funebri, affinché nell'altrove ci sia suono, perché come dicevamo la musica è vita.
Cavalca un drago, invece, la dea della musica giapponese, Benzaiten, protettrice delle geishe e dei danzatori, splendida e sensuale, nata dal mare come una Venere d'oriente.
Ogni religione contempla il suono e il canto; ma anche ogni protesta, ogni unione, ogni festa pagana e popolare necessitano della musica. La musica è colta e volgare, è altissima e greve, è spiritualità e ventre, è tutto. Dell'universo esprime ogni aspetto con sfumature e gradazioni che nessun colore, nessuna parola, nessun pensiero potrà raggiungere.
Essa è divina, è l'unica arte che gli uomini non hanno creato. L'hanno solo infinitamente declinata dopo averla ricevuta in dono dalle divinità.

Celebriamo oggi questo dono prezioso con l'ascolto di un pezzo straordinario del 1915, le Danze Rumene di Bela Bartok. https://www.youtube.com/watch?v=4HAIHSqiwAA





martedì 18 giugno 2013

IL TAROCCO DELLA TORRE ovvero 'breve storia dell'umanità in relazione alle vicende legate agli edifici verticali'

La torre, il tarocco della torre.
Cambiamento epocale, distruzione, tabula rasa.
Il tarocco della torre indica il sovvertimento radicale del
presente, l’evento traumatico che fa deflagare le certezze. Il noto
si frantuma, avanza l’ignoto. Ma anche l’inaspettato, la chance
d’un mutamento.



A ben guardare, la storia della civiltà prevede sempre la costruzione o la distruzione d’una torre e ciò coincide quasi sempre con momenti di critico passaggio. La torre è emblema dell’ambizione, dell’ambizione degli uomini.
Ascendere verso il cielo, in verticale, significa sfidare gli dei, portare affronto ai numi tutelari. La torre ha preceduto di millenni l’avverarsi del sogno umano di sollevarsi nei cieli. Mentre Icaro precipitava nei mari del mito per aver osato sollevare la propria superbia verso il sole, le antiche civiltà popolavano il mondo elevando solide torri a gradoni, spericolate dita di pietra rigirate contro il regno degli dei giudici. La più nota di quelle meraviglie è passata alla storia come Torre di Babele. Non sappiamo se Babele sia la gloriosa Babilonia, capitale del regno immenso di Assurbanipal e di Nabuccodonosor. Certo è che Babele e Babilonia sono nomi vergognosamente simili, anche se Babele in aramaico significa confusione e Babilonia porta di Dio. Ma Babilonia era una metropoli, antica e superba, trafficata da milioni di genti d’ogni provenienza. Per cui, senz’ombra di dubbio, l’epiteto di confusionaria le si addiceva di sicuro. Inoltre la torre di cui parla la Bibbia potrebbe identificarsi con la grande Ziqqurat che si elevava nel centro della metropoli.
Una piramide immensa, di gradoni che scalavano l’aria verso le stelle con fontane e giardini. Essa offriva alla stirpe degli uomini la scala per giungere agli dei.
Ma se gli Dei della Mesopotamia potevano apprezzare questa sorta di connubio con gli umani, il Dio unico degli ebrei, che sarà poi lo stesso delle nostre religioni moderne, era troppo superbo e ansioso per accettare un simile affronto, sicché intervenne per interrompere l’erezione del bolide di pietra.
Libro della Genesi, capitolo 11, versetti 1 – 9. “Tutta la terra aveva un medesimo linguaggio ed usava le stesse parole. Or avvenne che gli uomini, emigrando dall’oriente, trovarono una pianura nella regione del Sennar e vi si stabilirono. E dissero l’un l’altro: ‘Su, facciamo dei mattoni invece che di pietre e di bitume in luogo di cale.’ E dissero: ‘Orsù, edifichiamo una città e una torre la cui cima penetri il cielo. Rendiamoci famosi per non disperderci sulla faccia della terra’. Ma il Signore scese a vedere la città e la torre, che gli uomini costruivano, e disse: ‘Ecco, essi formano un popolo solo e hanno tutti un medesimo linguaggio: questo è il principio delle loro imprese. Niente ormai li impedirà di condurre a termine tutto quello che si propongono. Orsù, scendiamo e confondiamo lì il loro linguaggio, in modo che non s’intendano più gli uni con gli altri’. Così il Signore di là li disperse sulla faccia delle terre ed essi cessarono di costruire la città, la quale fu chiamata Babel, perché ivi il signore confuse il linguaggio di tutta la terra e di là li disperse su tutta la terra.”
Se prestiamo fede al mito biblico, dunque, dalla distruzione della torre di Babele ne deriverebbero la confusione delle lingue, l’incomprensibilità, il non capirsi più.
La sciagura delle intolleranze, la sconfitta delle lingue che, di tutti le convenzioni umane, sono le uniche a erigere barriere fra gli esseri nascono allora, con quel crollo. Non è forse vero?
Laddove la musica affratella, la pittura ci raggiunge tutti, le architetture ci impressionano senza badare alle nostre razze, le lingue, inesorabilmente ci dividono.



Da quella prima erezione e da quel primo crollo, ne deriva dunque il primo, sommo male della nostra storia.
Liquidiamo così il mondo antico con le sue torri? Non diciamo nulla del grande faro di Alessandria? La torre mastodontica che dalla testa dell’Egitto proiettava luce ai quattro angoli del Mediterraneo? Una delle meraviglie del mondo. Architettura sublime. Tecnica mai vista prima. La modernità nell'antichità!
L’immenso faro si elevava sul fronte del porto di Alessandria, la città su cui Alessandro Magno aveva posto il governo della dinastia dei Tolomei. Città di scambi e d’incontri, profumata di spezie, adorna di scintille d’oro e lapislazzuli. La città della più grande biblioteca dell’antichità. Migliaia di rotuli. In essa era conservato tutto, assolutamente tutto il sapere del mondo antico. La sapienza abitava ad Alessandria, vi aveva trovato un’accoglienza vasta e luminosa quanto il faro della città. Ordinatamente disposta su scaffali di legno, dentro corridoi silenziosi raggiunti dalle lingue, dai pensieri, dalle arti di tutte le Terre allora conosciute, la scienza degli uomini era stata catalogata e preservata sulle rime del Grande Mare dalle acque color del vino. Ma anche quella doveva essere un’ambizione troppo grande per gli uomini. La sapienza, come le torri, piace poco alle divinità. E nel Grande Mare della Porpora viaggiante, abitavano dei rabbiosi e intolleranti. La biblioteca andò a fuoco, trascinando con il suo sconfinato rogo tutta quella saggezza. Il faro, l’alta torre della luce, si disfece tredici secoli dopo precipitando nel mare dove ancora giacciono le sue millenarie pietre, scolpite da giganti. La caduta del faro di Alessandria e l’incendio della biblioteca segnano la fine del mondo antico: si prepara una tabula rasa della civiltà, un sommovimento di pensiero e conoscenza. Il mondo entrò allora in una nuova stagione, cupa e diversa, che del passato avrebbe salvato solo rovine e lacerti di sapienza.



Ciò nonostante, l’uomo avrebbe continuato a erigere architetture verticali: i campanili e i minareti! Lo fece per ingraziarsi quell’unico Dio, superbo, che era sopravvissuto all’ecatombe del sacro del mondo antico. Quel dio che le torri le distruggeva, accettò che a lui si elevassero come frecce del martirio le punte acuminate di architetture traforate e austere.
Gli uomini erano furbi, più furbi di lui, però.
Già, perché nella selva di pietra delle città medioevali, accanto ai campanili ruffiani, sorsero altre torri, centinaia, migliaia di torri. Emblema delle nuove classi, orgoglio dei borghesi, visone concreta e tangibile della ricchezza dell’individuo. Eccolo, nuovamente l’individuo, l’uomo che si impone, impone se stesso sugli altri e primeggia, assalta la vita e la vince, teme Dio ma lo affronta sulla terra con l’altezza della sua torre gentilizia.
S’alzano, guardate, una dopo l’altra! Le innumerevoli torri d’Italia. Quelle di Pavia e di Ascoli Piceno, scabre, ferrigne. Le due gemelle sottili di Bologna, la Ghirlandina di Modena, il Mangia a Siena, il bosco di pietra di Lucca su cui campeggiano le torri alberate dei Guinigi, ovunque sorgono, ovunque sfidano il cielo. Sfuggono l’asfissiante reticolato di pietra e fetore delle città medioevali, uscendo dall’ombra della paura per proiettarsi al sole, simili a missili, a falli spudorati, simili a pugnali.



Ma il tempo segnò la fine anche di quella stagione.
La stagione delle torri.
Crollano per incuria, s’accartocciano su se stesse, i gusti mutano e gli uomini le abbattono per fare spazio all’aria, la ragione ripulisce le città. I profili dell’orizzonte si sgomberano di questi puntaspilli lapidei che per secoli hanno costellato i paesaggi.
Per lungo tempo, per secoli, le torri scompaiono dalle pagine ingiallite dei progetti degli architetti. L’uomo affronta il cielo con la scienza, brama il volo, chiede elevazioni sempre più audaci. Ci provano i geni, costruiscono fallimentari macchine destinate a voli abortiti: la vite volante, la nave volante, le ali con stecche di balena… poi, nel secolo frivolo delle rivoluzioni e delle parrucche, ecco che si fanno passi avanti. Si inizia a volare! L’uomo gonfia i primi aerostati capaci di farsi più leggeri dell’aria elevandosi verso gli dei. Madame e messieurs, venite, venite al gran volo dei fratelli Montgolfier!


Giunge a questo punto, trascinata dall’elio e dai colori pastello delle Rivoluzioni, l’epoca della modernità! Oh, sì, sì che giunge, il mirabolante XIX secolo! E stranamente quell’antica urgenza di elevare al cielo architetture oltraggiose rinasce.
Le metropoli osano. Anche se i cieli ora sono percorsi dal volo sonnolento e maestoso degli aerostati, le città devono dimostrare le loro ardimentose pretese. A Torino, l’architetto Antonelli eleva entro il 1900 l’altissima, spericolata guglia della sua mole. La mole Antonelliana sarà l’edificio in muratura più alto d’Europa! 167 metri di sfida laica, un affronto se pensiamo che inizialmente doveva essere una Sinagoga ebraica. Un affronto. L’umanità che si proclama vincitrice della fisica. Un proiettile acuminato proteso a ferire il cielo di Torino, quel cielo in cui passano ora le grandi mongolfiere, di fronte alle Alpi solenni e innevate contro un cielo color carta da zucchero.



Non fu la mole dell’Antonelli, però, la torre più ardita del XIX secolo. Quel tempo che ebbe il sapore della sabbia e profumo di tabacco ebbe la sua superba ziqqurat.
È la tarda primavera del 1889. Un grande evento! Alla corte d’Europa giunge il mondo intero. La corte d’Europa, quell’anno, è la città di luce, Parigi.
Chiunque vi giunge, la vede, immensa. Mai s’è visto un più ardito affronto al cielo. L’uomo ha vinto, esalta a sua ascesa ed è egli stesso Dio! 6 maggio 1889. Apre la Grande Esposizione Universale. I padiglioni sono pronti, si estendono come fantasie e capricci sulla grande explanade. Ma su tutto campeggia Essa, la torre ferrata dell’ingegnere Gustave Eiffel. 324 metri di altezza: 18.038 pezzi di ferro forgiati, più di due milioni e mezzo di bulloni, 10.000 tonnellate di eleganza che s’incurva verso il cielo. Enorme parafulmine, trionfo dell’ingegneria. Anch’essa è un padiglione, l’emblema dell’Esposizione. Verrà tolta non appena la manifestazione  chiuderà, così ha deciso la commissione organizzatrice. Poi le cose seguono un corso diverso e lei rimane là, a dominare la metropoli per sempre. La modernità, il trionfo del nuovo che avanza.



     Ecco, immaginate ora di stare lassù, vicino al fonografo installato da Edison sulla torre. Non occorre un aerostato per dominare il mondo. L’emozione è incontenibile.
Ai piedi del bolide ferrato, sui cui lati sono sati incisi i nomi dei luminari della scienza e della tecnica della Grande Francia, si estende il mondo. Nei padiglioni, minuscoli a guardarli da quell’altezza, si dipana una geografia globale: c’è l’Italia, laggiù la Germania vicino alle colonie della Persia, le ballerine Giavanesi, il Celeste Impero e ancora il Giappone, le cui stampe ci portano l’aria di nuova bellezza, rarefatta come un sogno.
Ecco le colonie del Senegal, più in là il Siam, il Tonchino, la Bolivia, il Brasile e il Venezuela!



Per un attimo pensereste di volare, esattamente come nei romanzi di Verne. Compiere il giro del mondo in un secondo dalla vetta della torre per farvi subito ritorno. Poi vi svegliereste dal sogno. Scendereste a terra, passeggiando per quelle meraviglie, fra gli immensi padiglioni dalle forme esotiche e bizzarre. Gli architetti eclettici del tempo hanno mescolato tutto il mescolabile. Il risultato è quantomeno bizzarro.
C’è qualcosa che non va. La folla dei visitatori si appresta ai padiglioni esotici scrutandone i figuranti, oriundi di terre lontane, come se fossero animali di uno zoo. È una curiosità morbosa, che nasconde diffidenza e presunzione. Gli Europei sono colonialisti, quella è loro merce. L’incanto delle ballerine di Giava è un giocattolo per i borghesi, le loro movenze sono esotiche ma proprio per questo pittoresche, persino pacchiane in quel contesto così lontano dal loro contesto. Nelle architetture dei padiglioni si avverte già lo stereotipo, l’idea alterata che dell’altra parte del mondo ci si fa in Europa ascoltando i racconti dei viaggiatori, sfogliando i giornali, osservando le illustrazioni che deformano la realtà e la riproducono agli occhi degli europei così come essi vogliono che sia: inoffensiva, goffa, primitiva, ancestrale, infantile… li chiamano canachi.
Canachi. Sono gli abitanti delle colonie, i rozzi ed ingenui abitatori di regioni che l’Europa intellettuale e potente ha assoggettato e che sfrutta con abilità. La ricchezza di Parigi dipende anche da quell’esproprio. Quella di Londra quasi esclusivamente! Pensare che questa gente così diversa sia ingenua e rozza, aiuta a non porsi il problema. Viene sfruttata, raggirata, dominata e i danni di questo affronto non tarderanno a farsi sentire.
Molti non se ne accorgevano. Per loro era normale. È questo un amle antico per l’Europa, non ha mai saputo guardar oltre il proprio presente.
Ma poi il tempo è andato oltre quel presente e si è visto come si svilupparono le cose. Nell’esposizione di Parigi, che sembrò tanto meravigliosa ed eccitante, c’erano tutti i germi del male. All’ombra della grande torre della presunzione, non ci si accorse di cosa l’Europa stava facendo.
Non ci rendemmo conto che ogni padiglione europeo sfoggiava la sua supremazia. Ogni Nazione si preparava a rivendicare la sua identità, e quelle con più colonie, sembravano godere di un prestigio maggiore. Non avremmo mai immaginato dove ci avrebbe portato tutto questo…
Al buio.
Agli eccidi, alle guerre. Eravamo al tramonto di un’epoca e nemmeno ce ne rendevamo conto.
Anzi! Pensavamo così ingenuamente di essere sulla soglia di una nuova stagione della civiltà. Ed invece…
E invece la torre di ferro fu come un chiavistello che si rompe. Nessun Dio intervenne al momento per punire quella superbia. I filosofi, in quegli anni, sostenevano che gli dei erano caduti per sempre. Ma la punizione giunse, oh se giunse, e fu terribile, terribile come era stato per la torre di Babele. La miriade di lingue che si contorceva in un falso entusiasmo ai piedi della torre Eiffel, quella nuova Babilonia fatta di lingue e dominio, avrebbe incappato nuovamente nella tabula rasa della storia. La fine di tutto questo, se tutto questo ebbe una fine, sarebbe stata 56 anni dopo, su un’isola del Giappone. Una torre di fumo immensa, un fungo senza precedenti. Lo sfiato mortale di una divinità corrotta che avrebbe sancito, in modo irrevocabile, la sconfitta dell’umanità tutta.



Ma la storia non si ferma. Non rallenta mai, anzi, tende ad accelerare. E dunque consacra nuove torri, oppure le svelle. Il tarocco non sbaglia. Le tabulae rase, così dolorose eppure care al tempo che scorre, sembrano davvero aver sempre a che fare con le torri. Il gioco non si smentisce mai.

11 settembre 2011
Ed ancora fatichiamo a capire. A guardare più avanti.


from 'Nimbus: l'amore ai tempi del vapore'



venerdì 7 giugno 2013

Memorie di un maestro precario: salutando i piccoli fiori.

Ciao fiori di questo giardino segreto, coltivato e vissuto per lunghi mesi, giorno dopo giorno.
Fiori incredibili, fiori terribilmente belli, fiori che a settembre mi sembrarono spaventosi e che ora lascio con occhio umido, pieno di gratitudine.
Differenze che contano, distanze che dilatano e non separano, colori in mutamento. Vedervi nell'insieme è un incanto che fa paura e riempie il cuore di bellezza. Sapervi discernere e comprendere ciascuno per se stesso, è un insegnamento che lascia profondi solchi destinati a germogliare.
Grazie.
Grazie di avermi accolto, tollerato e compreso, accettato, accordando fiducia. Noi vi abbiamo dato semi e concime, voi ci avete riempito di nettare e polline necessario per crescere ed imparare ancora.
Quando la scuola è così, uno scambio autentico, abbiamo costruito, abbiamo reso bello il grande giardino della vita.
Grazie.