sabato 24 febbraio 2018

Sherman Alexie è un grande scrittore.
E’ anche un americano ma soprattutto è un indiano di origine spokane. Il che lo rende, e lo si evince chiaramente dalla sua scrittura, un uomo irrisolto che dolorosamente ma anche ironicamente fa i conti con una profonda crisi identitaria.
Con uomo irrisolto si intenda ‘uomo che non riesce più ad identificarsi e dunque trovare risoluzione in un gruppo’. La non appartenenza è la condizione generale di quasi tutti i personaggi delle bellissime storie (se storie possono dirsi) raccolte in ‘Danze di Guerra’, testo miscellaneo di racconti brevi e poesie, fresco di pubblicazione per le edizioni NNE.
Sherman Alexie è un grande scrittore perché sa collocare se stesso e la sopraccitata condizione di non appartenenza dentro la scrittura senza tuttavia raccontarsi in modo compiaciuto ed autobiografico. Si allontana, dunque, da una certa tradizione narrativa americana che ha fatto della narrazione e dell'esaltazione del sé il proprio rovello creativo (si pensi ad Hemingway o Bukowski). 
Alexie dissemina, piuttosto, di se stesso e del suo vissuto tutta una costellazione di personaggi che sono anche altro da lui e che si raccontano con fare lucido, poetico e ironico ma sempre venato di una malinconica, ossessiva rassegnazione. La rassegnazione di non fare realmente parte dei contesti in cui si è costretti a vivere. I luoghi di lavoro, la famiglia, le città sono sempre ambiti nei quali l'io narrante (quasi sempre espresso in una soggettiva prima persona di forte presa) prende atto della sua non appartenenza. Molti dei protagonisti dei racconti, infatti, sono indiani di nuova generazione che fanno i conti con un contesto sociale ammorbato, quello statunitense, che si proclama democratico senza esserlo autenticamente e dove la specificità etnica diventa un doppio fardello: non si appartiene del tutto a tale contesto, con le sue disfunzioni e le sue gerarchie, ma non si appartiene neppure più alla cultura di provenienza. Solo i padri, spesso figure patetiche legate a ritualità imbastardite da contaminazioni contemporanee, riescono a rievocare il passato indiano aiutati dall’alcolismo, confinati nella marginalità.
La lingua con cui Alexie si esprime è contemporanea: unisce all’asciuttezza tipicamente americana, priva di ogni aspetto descrittivo, una componente lirica ed evocativa che via via sfocia in poesie vere e proprie. Si tratta di un espediente ritmico, un escamotage per contrappuntare la prosa con i versi. Tuttavia, come in un gioco di specchi, se la prosa di Alexie eredita tratti lirici, per osmosi la sua lirica procede in modo quasi narrativo.
Ne scaturisce, complessivamente, un potente e solido impianto del tutto nuovo (almeno per mia conoscenza, devo dire molto ridotta, della letteratura americana).
Un altro tratto distintivo della scrittura di questo autore, è il taglio - il missaggio si potrebbe dire - che viene impresso ai racconti. Quasi tutte le storie si interrompono in modo inatteso, raramente vengono ad una conclusione definita. Piuttosto, sembra quasi che Alexie sospenda il procedere del racconto laddove, sapientemente, le informazioni sono sufficienti per immaginare un possibile proseguo. Eppure, in sé, ogni storia ha la sua compiutezza ancorché raggiunta nello scorcio fulminante di poche pagine.
E chi popola queste pagine così belle?
Ci sono addetti al missaggio di origine spokane che uccidono giovani ladruncoli di colore e non riescono a pacificarsi né con l’atto compiuto né col fatto di essere a loro volta parte di una minoranza fraintesa; ci sono commercianti di vestiti vintage che non riescono più ad amare la propria moglie seppur bellissima e che cercano disperati incontri sessuali con altre donne senza risultato; incontriamo rampanti figli di senatori repubblicani che pestano a sangue il proprio amico gay vedendo così sgretolarsi il proprio universo di certezze per un senso di colpa che fatica a trovare un centro autentico di riflessione (il padre è più aperto di quanto un repubblicano dovrebbe, l’amico gay è più repubblicano di quanto ci si aspetterebbe da un gay); incontriamo sceneggiatori in erba, anch’essi di origine spokane, che perdono l’ispirazione quando il mondo di Hollywood impone loro di abdicare alla bellezza ma che riescono poi a recuperare il gusto di scrivere in modo davvero imprevedibile; la carrellata è ampia, sempre nuova. C’è spazio anche per un haiku destrutturato che diventa una prosa in tre tempi brevi dove suore e ragni si mescolano grazie a pennellate narrative di grande sintesi. Siamo dentro un universo con ricorrenze e riti ma vivificato da una variatio sempre nuova che rende il ritmo incalzante, la lettura fluida, l’attrattiva fortissima.
Sfondo geografico ed urbano di queste storie sono quasi sempre Seattle, città dell’autore, e lo stato di Washington. Si tratta di quella parte d’America che, posta a Nord Ovest, ospitò un tempo la popolazione spokane oggi confinata nelle riserve o, come nel caso dell’autore e dei suoi personaggi, mescolatasi in un meticciamento etnico non del tutto pacificato.
Unico neo, forse, rilevabile in questo testo bellissimo è la mancanza pressoché totale di descrizioni dei luoghi. Questa tendenza molto attuale della letteratura americana ma anche europea, rischia di costringerci a sforzi immaginifici. Chi non conosce Seattle e il suo stato, cosa può immaginare dietro l'agire di tanta umanità? Sherman Alexie è anche sceneggiatore. Molti scrittori di oggi lavorano per il cinema. Ovviamente le sceneggiature possono omettere i riferimenti descrittivi poiché saranno compensati dalla visione cinematografica. Ben venga l’impianto narrativo modellato sulle procedure di scrittura per cinema. Ma leggere significa anche vedere e a volte un accenno, anche breve, a dettagli di ambienti e luoghi può regalare a certi lettori come me un’emozione in più.
Detto questo, chiudo con una nota sulla bellissima traduzione del testo ad opera di Laura Gazzarrini. Convertire in altra lingua testi così complessi significa innanzi tutto trovare un compromesso fra la visione dell’autore, senza tradirne lo spirito e la ricchezza di sfumature emozionali, e la sua ricercatezza linguistica. I giochi di parole, gli inserti poetici, i neologismi di cui l’intera opera è tramata devono aver richiesto un’accurata procedura di traduzione e riscrittura. Non c'è una pagina, dall'inizio alla fine, dove si percepisca una qualche fatica di riscrittura. La lastra è tersa, non vi sono incrinature. Di particolare pregio è la nota della traduttrice posta in chiusura dove ci viene ricordata la capacità di Alexie di partire dai microcosmi della quotidianità per giungere ai grandi temi universali.
Ed è proprio un senso di appartenenza universale che si prova alla fine, dopo il meraviglioso testamento lirico del libro, la poesia 'Catena alimentare'. L'ultimo verso è esattamente quello che il lettore sente risuonare in sé, pieno di gratitudine: ho amato la mia vita. 
E' proprio così.

Da leggere.