Sherman Alexie è un grande scrittore.
E’ anche un americano ma soprattutto è un indiano di origine
spokane. Il che lo rende, e lo si evince chiaramente dalla sua scrittura, un
uomo irrisolto che dolorosamente ma anche ironicamente fa i conti con una
profonda crisi identitaria.
Con uomo irrisolto si intenda ‘uomo che non riesce più ad
identificarsi e dunque trovare risoluzione in un gruppo’. La non appartenenza è
la condizione generale di quasi tutti i personaggi delle bellissime storie (se
storie possono dirsi) raccolte in ‘Danze di Guerra’, testo miscellaneo di
racconti brevi e poesie, fresco di pubblicazione per le edizioni NNE.
Sherman Alexie è un grande scrittore perché sa collocare se
stesso e la sopraccitata condizione di non appartenenza dentro la scrittura
senza tuttavia raccontarsi in modo compiaciuto ed autobiografico. Si allontana,
dunque, da una certa tradizione narrativa americana che ha fatto della
narrazione e dell'esaltazione del sé il proprio rovello creativo (si pensi ad Hemingway o Bukowski).
Alexie dissemina, piuttosto, di se stesso e del suo vissuto tutta una costellazione di
personaggi che sono anche altro da lui e che si raccontano con fare lucido, poetico e ironico ma sempre venato di
una malinconica, ossessiva rassegnazione. La rassegnazione di non fare realmente parte dei contesti in cui si è costretti a vivere. I luoghi di lavoro, la famiglia, le città sono sempre ambiti nei quali l'io narrante (quasi sempre espresso in una soggettiva prima persona di forte presa) prende atto della sua non appartenenza. Molti dei protagonisti dei
racconti, infatti, sono indiani di nuova generazione che fanno i conti con un
contesto sociale ammorbato, quello statunitense, che si proclama democratico
senza esserlo autenticamente e dove la specificità etnica diventa un doppio
fardello: non si appartiene del tutto a tale contesto, con le sue disfunzioni e
le sue gerarchie, ma non si appartiene neppure più alla cultura di provenienza. Solo i padri, spesso figure patetiche legate a ritualità imbastardite da
contaminazioni contemporanee, riescono a rievocare il passato indiano aiutati
dall’alcolismo, confinati nella marginalità.
La lingua con cui Alexie si esprime è contemporanea: unisce
all’asciuttezza tipicamente americana, priva di ogni aspetto descrittivo, una
componente lirica ed evocativa che via via sfocia in poesie vere e proprie. Si
tratta di un espediente ritmico, un escamotage per contrappuntare la prosa con
i versi. Tuttavia, come in un gioco di specchi, se la prosa di Alexie eredita
tratti lirici, per osmosi la sua lirica procede in modo quasi narrativo.
Ne scaturisce, complessivamente, un potente e solido
impianto del tutto nuovo (almeno per mia conoscenza, devo dire molto ridotta,
della letteratura americana).
Un altro tratto distintivo della scrittura di questo autore,
è il taglio - il missaggio si potrebbe dire - che viene impresso ai racconti. Quasi
tutte le storie si interrompono in modo inatteso, raramente vengono ad una
conclusione definita. Piuttosto, sembra quasi che Alexie sospenda il procedere
del racconto laddove, sapientemente, le informazioni sono sufficienti per
immaginare un possibile proseguo. Eppure, in sé, ogni storia ha la sua
compiutezza ancorché raggiunta nello scorcio fulminante di poche pagine.
E chi popola queste pagine così belle?
Ci sono addetti al missaggio di origine spokane che uccidono
giovani ladruncoli di colore e non riescono a pacificarsi né con l’atto compiuto
né col fatto di essere a loro volta parte di una minoranza fraintesa; ci sono
commercianti di vestiti vintage che non riescono più ad amare la propria moglie
seppur bellissima e che cercano disperati incontri sessuali con altre donne
senza risultato; incontriamo rampanti figli di senatori repubblicani che
pestano a sangue il proprio amico gay vedendo così sgretolarsi il proprio
universo di certezze per un senso di colpa che fatica a trovare un centro
autentico di riflessione (il padre è più aperto di quanto un repubblicano
dovrebbe, l’amico gay è più repubblicano di quanto ci si aspetterebbe da un
gay); incontriamo sceneggiatori in erba, anch’essi di origine spokane, che
perdono l’ispirazione quando il mondo di Hollywood impone loro di abdicare alla
bellezza ma che riescono poi a recuperare il gusto di scrivere in modo davvero
imprevedibile; la carrellata è ampia, sempre nuova. C’è spazio anche per un
haiku destrutturato che diventa una prosa in tre tempi brevi dove suore e ragni
si mescolano grazie a pennellate narrative di grande sintesi. Siamo dentro un universo con
ricorrenze e riti ma vivificato da una variatio
sempre nuova che rende il ritmo incalzante, la lettura fluida, l’attrattiva
fortissima.
Sfondo geografico ed urbano di queste storie sono quasi
sempre Seattle, città dell’autore, e lo stato di Washington. Si tratta di
quella parte d’America che, posta a Nord Ovest, ospitò un tempo la popolazione
spokane oggi confinata nelle riserve o, come nel caso dell’autore e dei suoi
personaggi, mescolatasi in un meticciamento etnico non del tutto pacificato.
Unico neo, forse, rilevabile in questo testo bellissimo è la
mancanza pressoché totale di descrizioni dei luoghi. Questa tendenza molto
attuale della letteratura americana ma anche europea, rischia di costringerci a
sforzi immaginifici. Chi non conosce Seattle e il suo stato, cosa può
immaginare dietro l'agire di tanta umanità? Sherman Alexie è anche sceneggiatore. Molti scrittori di oggi
lavorano per il cinema. Ovviamente le sceneggiature possono omettere i
riferimenti descrittivi poiché saranno compensati dalla visione
cinematografica. Ben venga l’impianto narrativo modellato sulle procedure di
scrittura per cinema. Ma leggere significa anche vedere e a volte un accenno,
anche breve, a dettagli di ambienti e luoghi può regalare a certi lettori come
me un’emozione in più.
Detto questo, chiudo con una nota sulla bellissima
traduzione del testo ad opera di Laura Gazzarrini. Convertire in altra lingua
testi così complessi significa innanzi tutto trovare un compromesso fra la
visione dell’autore, senza tradirne lo spirito e la ricchezza di sfumature
emozionali, e la sua ricercatezza linguistica. I giochi di parole, gli inserti
poetici, i neologismi di cui l’intera opera è tramata devono aver richiesto
un’accurata procedura di traduzione e riscrittura. Non c'è una pagina, dall'inizio alla fine, dove si percepisca una qualche fatica di riscrittura. La lastra è tersa, non vi sono incrinature. Di particolare pregio è la
nota della traduttrice posta in chiusura dove ci viene ricordata la capacità di
Alexie di partire dai microcosmi della quotidianità per giungere ai grandi temi
universali.
Ed è proprio un senso di appartenenza universale che si prova alla fine, dopo il meraviglioso testamento lirico del libro, la poesia 'Catena alimentare'. L'ultimo verso è esattamente quello che il lettore sente risuonare in sé, pieno di gratitudine: ho amato la mia vita.
E' proprio così.
Da leggere.