mercoledì 5 novembre 2014

Il mare, l'accoglienza, il congedo: teatro InBiLiKo e le narrazioni dall'abisso.



Che le divinità del mare siano divinità imperscrutabili è cosa nota. Ed è noto, anche, che siano spesso divinità cattive. Che giocano con la vita degli uomini, che si trasformano per mentire, che seducono e uccidono. Marén è uno spettacolo che parla di divinità marine. Di dee. Parla di un mare femmina, una mobile e proteiforme generatrice che dona vita e la toglie a suo piacimento. Un mare umorale, isterico a volte, direi quasi uterino se non rischiassi di apparire politicamente scorretto. Marén è anche uno spettacolo, una danza, un viaggio con una fortissima impronta meridionale, anzi, tropicale. È uno spettacolo speziato, frastornante. Le spezie che qui si assaggiano sono miste, mischiate, sovrapposte e non guidano in modo chiaro bensì confondono, inebriano, respingono, seducono, soffocano. Chi cerca un testo teatrale prima che un’azione, non entri nemmeno nel cerchio magico delle sette sacerdotesse. Rischierebbe nel migliore dei casi di rimanere deluso. Nel peggiore, di morire affogato. Il testo, quando c’è, è quasi secondario all’azione. Ed è comunque un testo meticcio, che non chiede d’essere compreso nelle sue componenti narrative, bensì nel suo potere evocativo. Non è un testo, anzi. Sono brandelli di testo. Il testo è la superficie del mare ma ciò che conta è l’abisso che vi sottende. Pezzi di oggetti trovati sulla battigia, come quelli utilizzati nella scenografia dello spettacolo. Pezzi di testo. Ogni astante potrà raccogliere quelli che vuole e leggerli come meglio crede, montando la propria storia. I 28 spettatori entrano a gruppi di 7. Sette è il numero delle femmine. Sette è il numero delle ‘gambe di donna’. Sette sono gli spicchi di un ombrello-medusa che piano piano si comporrà sulla scena ad accogliere le altrettante ripartizioni di uno spazio magico, un cerchio delle streghe dove avvengono cose, dove si muovono corpi, dove si evocano questioni che salgono su dall’abisso. Entrati, si viene stipati su un’ipotetica spiaggia. Il centro illuminato dello spazio ospita un’istallazione contemporanea costituita dall’intricato intreccio di 28 sedie. Sedie impagliate. Lo spazio risuona del canto nenioso, per nulla rassicurante, di sette santone cubane biancovestite. Indossano turbanti eloquenti, colorati. Alcune hanno pendenti, altre collane di legni. Cantano, sorridono, la loro voce si insinua nello spazio come il sibilo di sirene. Le signore sono pronte per un rito, lo si capisce. E noi siamo testimoni di questa attesa sacra. Si percepisce un’atmosfera di santeria, di sospensione fra sacralità pagana e accenni di cristianesimo coloniale. Ma è un Sud ideale questo, un luogo non luogo che sta fori dal tempo e dallo spazio che conosciamo. Può esser un ogni dove, in un momento indistinto di una storia che si conosce per emozioni e non per nozioni. Siamo nel Sud. In un Sud afoso, soleggiato. Che convive con la risacca del mare. Un luogo archetipico di emozioni ventrali, di coralità ripetute, di esplosioni incontrollabili di energie vitali. Dove si gioca con cose ancestrali. E si muore. Dove le donne sono alleate di quell’immensa divinità femmina che lambisce l’intero spazio della vita. Quelle sedie iniziano a fluttuare nel vuoto. Le sacerdotesse invitano gli spettatori a seguirle. Sono richiami ambigui, non è rassicurante seguire le traiettorie di quelle sedie volanti che conducono i 28 prescelti alle loro postazioni. Teatro scomodo. Nel senso che apre fin da subito l’incognita del non sapere dove si va a parare. Che divide le coppie, gli amici. Li relega ad angoli distanti. Immerge in una solitudine che chiarisce subito una cosa: di fronte al mare siamo soli. Spettatori e soli. Quando il canto finisce, siamo pronti per il rito. Ciascuno potrà viverlo solo dalla sua prospettiva. Ciascuno lo vivrà in modo diverso. Ecco allora che le sette donne si fanno fanciulle irrequiete e sorridenti, ci raccontano di paesi lontani affacciati su spiagge di Caraibi. Si dirigono verso la spiaggia. Sulla battigia rinvengono cose, oggetti, frammenti di vita. Un cadavere incrostato di parassiti marini. E subito si avventano su quel corpo maschile, desiderose. Desiderare un morto. Apprezzarne la fisicità seppur sottratta all’alito della vita. Roba da far paura. Ma le sette dee manifestano la loro natura. Quella vera e terribile. Eccole scatenare una tempesta bianca, feroce, alitare venti e sollevare le onde di un mare lenzuolo su cui una scatola vascello sfida la sopravvivenza, perdendo la partita. Ogni via di fuga le è preclusa. Ogni volta che il veliero cerca di fuoriuscire da quel vortice di candore, una delle sette immense dee del mare la ricaccia nel centro. Alla fine il muro d’acqua si chiude sulla ciurma impazzita e fradicia. Finché l’abisso inghiotte tutto. Uccidendo. Ci sono immagini di abbacinante bellezza legate a questo sparpagliato sentore di morte. Cadaveri sulla spiaggia. Sotto il sole. Ed un gabbiano, mirabile fantasma che volteggia innanzi al cerchio degli astanti. Visione, suono, azione. Sembra di sentire echeggiare il malaugurante albatros di Coleridge. L’immagine sonora e visiva è di potente bellezza. Si parla della bellezza della morte. Ecco dunque che coi relitti trovati sulla strada, mentre si narrano brandelli di storia, si crea una sorta di fuso (bicicletta) che occuperà da qui alla fine lo spazio centrale della scena. Centro del mondo, del mare, dello spazio. Roteante perno dell’azione. Il richiamo è immediato alle Moire, le dee fatali che tessevano i fili della vita. Ma anche a certe fiabe che riconnettono a quell’oggetto girevole uno sgradevole senso di fatalità e di morte. A quel fuso-fungo, viene dunque incatenata una delle sette donne. Essa pare Ulisse legato all’albero, tanto desideroso di udire il canto delle sirene quanto spaventato dalla propria debolezza nel cedere alle loro lusinghe. La narrazione mescola le carte, confonde e somma i miti e le leggende. Si abbassano le luci e l’occhio luminoso della sacerdotessa-ciclope inizia a scrutare i volti degli astanti ruotando in una semioscurità che via via si accende di lontane pulsazioni abissali. Ecco Esteban. Il cadavere Esteban. (Il nome è quello del regista, è un caso o una sottile e ironica vendetta delle attrici-streghe rispetto al loro amato nemico dittatore?) Le moire decidono di farlo parlare. Di dargli voce. E lui parla. Parla dall’abisso che l’ha inghiottito e dove è rimasta la sua anima. Esteban sono 100 Esteban, Esteban non è un unico uomo. Non è il morto ritrovato sulla spiaggia e basta. Incarna mille voci di marinai traditi dal mare. Per questo egli parla attraverso ciascuna delle streghe. E ciascuna gli regala il colore, il timbro e la lingua dei paesi lambiti da un oceano che è crocevia di storie, Babele di traiettorie. Si parla pugliese, si sente il campano, un melodioso inglese, pure l’africano attraverso la lingua dei sordi… sono i 14 idiomi del mare con cui ogni Esteban rivela parti di sé, amore ed odio, attrazione e paura per il mare, spazio non umano abitato da pericolose sirene… a deep space. Deep and deeper. Si accende la festa. Scoprire la bellezza del cadavere accende nelle donne un senso di euforia sensuale e ridanciana. Esse lo ricompongono sulla scena, lungo una traiettoria obliqua. Gigante dai fascinosi attributi che nasconde un richiamo erotico tanto potente quanto perverso. Egli incarna l’alternativa alla mediocrità di una vita di rituale monotonia. Egli è l’uomo che esse non hanno mai avuto, l’alternativa ai loro compagni mediocri, abituali, comuni. Più morti di lui anche se ancora vivi. Seppur morto, egli costituisce un’evasione, l’alternativa. Ma anche in questo c’è qualcosa di terribile. Perché il suo corpo viene montato e poi smembrato da esse stesse. Madri e distruttrici, dunque, come quel mare che ha regalato alle donne del villaggio la magra consolazione di un corpo tanto bello quanto ormai corrotto dalla morte.




Veronica è un personaggio neotestamentario. È la donna che, durante il Calvario di Cristo, lo soccorse durante le cadute per asciugargli il sudore e il sangue dal volto. Sul panno ch’ella usò sul volto di Gesù, s’impresse l’immagine del viso divino. Quel velo rimane un feticcio millenario chiamato Veronica. Ci sono sette veroniche che oscillano nella penombra salmastra di Marén di fronte al volto degli spettatori. Dopo che il cadavere è stato compianto, amato, ammirato, Esteban-Cristo lascia la traccia del suo volto sui fazzoletti delle sacerdotesse e ciascuno dei presenti vedrà su quei fantasmi di stoffa il viso del proprio annegato. Uno dei 100 Esteban evocati dalla dea-ciclope, uno degli Esteban che parla uno dei 14 idiomi… Nel frattempo, dall’arcolaio magico - albero della cuccagna - totem sacrificale – altare collocato al centro dell’evento, si dipanano stoffe a raggiera e alle spalle del pubblico si distendono pareti di nitore. Si rimane chiusi dentro un padiglione di calura riarsa, sotto una medusa candida, dentro un pentacolo che lascia presagire la conclusione del rito. Sembra di starsene seduti su uno dei lunghi e sottili tentacoli di una gigantesca ofiura, elegante creatura dei mari, ennesima trasformazione o evocazione delle sette dee. Esse, le ancelle di Yemaja patrona dei naufraghi, dell’Oceano e delle donne incinte, generatrice e distruttrice, mutano forma nuovamente e tornano a dare voce al defunto. Si agglomerano così in una creatura gelatinosa, una di quelle misteriose entità marine di splendida trasparenza che danzano trascinate dai flutti. Corpi fluttuanti, pulsanti, autogerminanti. Da questo Proteo in lento movimento, emerge via via il volto e il corpo d’un Esteban che canta il suo essere morto. Corpo intriso d’alghe, poesia intrisa d’abisso. Questa è la parte dello spettacolo dove l’abisso e la superficie del testo si avvicinano nel modo più potente. Qua è bene udire, ascoltare. Si racconta del morire, dell’essere andati oltre, del dove si sta (o del non essere più) e del rinascere frutti che un bambino addenterà. Ma quando ciò avverrà, sarà altra vita. Un altro spettacolo. Un altro viaggio. Il sottobosco della medusa si popola di pezze colorate. I colori penetrano il nitore della spiaggia assolata. Si preparano altari. Per un sacrificio o per un funerale. Le sette sacerdotesse si dispongono sull’ofiura simili alle lavandaie celtiche del guado. La lavandaia del guado è una figura arcaica, dea dell’acqua e della tenebra. “Nella tradizione della letteratura sulle fate, la dea della tenebra è nota come “la lavandaia al guado”, uno degli aspetti della Morrigan ovvero “Grande Regina”. E’ lei quella che incontriamo al momento della morte fisica, quella che lava la nostra anima e la prepara alla rinascita. E’ un incontro ineluttabile. Ma possiamo cercare di incontrarla durante la nostra vita, in modo che il suo lavaggio tolga di mezzo consuete abitudini negative che ostacolano il nostro progresso”. Così scrive Hugh Mynne in ‘La via delle fate’. Così le sette dee si accingono a costruire corpi-feticci di bambino con asciugamani canditi e federe. Con quelle stoffe corporee, dunque, che lambiscono la testa, il corpo, l’intimità. Con lentezza rituale si compongono innanzi ai nostri occhi i corpi di sette fanciulli. Sette cadaveri. Sette Cristi, sette Esteban. Poi, con similare e simmetrica lentezza, i brandelli di questi fanciulli vengono immersi nell’acqua pura, lavati, rimestati. In un impasto che presagisce il rifluire dell’essere dentro una materia cosmica, plasmante. L’acqua. Da essa si viene, ad essa si torna. Alla faccia di quel terribile ed ingiusto fango di cui ci parlano le scritture mitologiche più brutte che si conoscano, quelle ebraico-cristiane. Prive di poesia ma pregne di peccato. Qua, in un mesto dolore, si ricorda invece che acqua eravamo e acqua torneremo. E ciò non sarà conciliante. Non sarà appagante. Perché il congedarsi può anche non essere drammatico ma non mai felice. Il prendere atto del congedo è qualcosa contraria alle leggi degli affetti. E anche a quelle della natura. La natura dona e prende, consegna e toglie senza criterio. Siamo noi che sentiamo il bisogno di vestire lo strappo, la sottrazione di un senso rituale che chiamiamo congedo. Dando senso a ciò che senso in sé non ha. Il congedo è l’ennesimo artificio dell’uomo che altro non è che una bestia cui è stata concessa la penosa condizione d’essere ‘razionale’. Noi siamo fatti per legarci e non per lasciarci. Anche le sette dee devono lasciare Esteban. Riconsegnarlo all’elemento acqueo che lo ha abbandonato sulla spiaggia al pari di tutto il resto. Per la madre oceanica Esteban è come il legno consunto del ramo, come la conchiglia spezzata, il frammento di vetro, la carcassa di un pesce, il relitto di un veliero, il maleodorante groviglio di sargassi… è una cosa come un’altra gettata sulla riva. Ora egli torna indistinto. Torna acqua. La sua anima ripartita in sette, viene appesa a sgocciolare. Si disfa perdendo consistenza solida. Torna alla sua origine. Si chiude così la lunga cerimonia delle sacerdotesse del mare. Il buio le trascina via con sé lasciando lo spazio pregno di suono. Suono sgocciolante di acque. Sarà possibile riscrivere una cosmogonia nuova che ci dica: ‘E in principio fu l’acqua. E l’acqua era femmina e generò l’uomo, dopo di che lo uccise per ricordargli ch’ella aveva su di lui potere di vita e di morte. Dunque lo generò di nuovo e lo gettò nell’Oceano perché imparasse a nuotare. Sulla superficie. E intanto, mentre lui tentava di sopravvivere, dagli abissi ella lo fece assaltare da immense paure per trascinarlo laggiù, nell’utero buio e umido dal quale tutto viene e al quale tutto torna’. Marén è uno spettacolo componibile, un caleidoscopio di suggestioni che ogni partecipante può costruire con gli elementi che meglio percepisce o preferisce. Ciascuno se ne viene via con un suo Marén, un suo viaggio, un suo percorso. Così, del resto, funzionano i riti. È dunque vero teatro, quello originario e dionisicaco che riconnetteva i partecipanti ad una funzione liberatoria, esorcizzante, pericolosa. Addirittura è così dionisiaco che le sette attrici a tratti diventano menadi. Sembrano le bacanti protese sul corpo di Orfeo per smembrarlo. E non fu un caso che la testa del mitico cantore, una volta dilaniato da quelle donne invasate, giungesse su una spiaggia trascinata dal mare…. Tutto ritorna. Esteban-Crito-Dioniso-Orfeo. Un quadrilatero inquietante. Marén oscilla fra teatro, danza, coreutica. Si tratta fondamentalmente di un coro, di un’azione drammaturgica prima di tutto visiva e sonora, poi anche testuale. È un’ennesima frontiera appena superata, un limite indagato e varcato con tutti i rischi e le potenzialità che ciò comporta. Alcuni difetti a detta di chi scrive: - la coralità musicale è talmente preponderante (si canta moltissimo, spesso) che le intonazioni e l’aspetto formale del canto vanno controllate decisamente meglio (soprattutto perché intralciati da stanchezza e fisicità perenne, le attrici tendono a perdere fiato e concentrazione sul tono). Il livello medio del canto non è all’altezza degli altri piani dello spettacolo per cui molto spesso disturba e trasmette un’idea di impreparazione (specificamente in questo ambito rispetto al resto). - La prima metà dello spettacolo presenta fasi rumorose molto suggestive che rischiano però di coprire il testo. Ora, fermo restando che il testo non è la cosa più importante, non può nemmeno divenire un dettaglio trascurabile. Se un attore parla si presuppone che sia necessario udire ciò che dice. I tonfi, i rumori, il movimento spesso ottundono la voce. Molte attrici mantengono toni vocali inadeguati alla potenza della scena, il che smorza la tensione richiesta. - La scena finale del bambino di panni è bellissima però l’immersione dei pezzi, altrettanto lenta della loro costruzione, diviene oggettivamente pesantissima. Nonostante la bellezza e la bravura delle attrici, si percepisce che ciò è determinato da loro ricerche personali ma ciò non trova adeguata rispondenza nella soluzione formale che un prodotto artistico deve avere. In sintesi: quella lentezza nell’immersione ha senso per le attrici, non per il pubblico. È l’unico momento dello spettacolo in cui ho pensato che stavo provando fatica, anzi! Si rischia di perdere la sensazione di bellezza struggente del momento precedente quando le sette madri compongono il figlio pezzo per pezzo. All’inizio ci si chiede cosa sia, poi si comprende e ci si commuove…. La parte dello smembramento e della lavatura appesantisce e toglie commozione. Una soluzione più snella non toglierebbe nulla, anzi, darebbe ancor più valore a questa mesta scena finale. Detto questo, si tratta di uno spettacolo da vedere e rivedere, da studiare in profondità (perché di profondità parla) da tute le più possibili angolazioni… Rimanendo in tema di numeri simbolici, si tratta di uno spettacolo che sarebbe opportuno vedere almeno 28 volte! Con riconoscenza.