mercoledì 5 novembre 2014

Il mare, l'accoglienza, il congedo: teatro InBiLiKo e le narrazioni dall'abisso.



Che le divinità del mare siano divinità imperscrutabili è cosa nota. Ed è noto, anche, che siano spesso divinità cattive. Che giocano con la vita degli uomini, che si trasformano per mentire, che seducono e uccidono. Marén è uno spettacolo che parla di divinità marine. Di dee. Parla di un mare femmina, una mobile e proteiforme generatrice che dona vita e la toglie a suo piacimento. Un mare umorale, isterico a volte, direi quasi uterino se non rischiassi di apparire politicamente scorretto. Marén è anche uno spettacolo, una danza, un viaggio con una fortissima impronta meridionale, anzi, tropicale. È uno spettacolo speziato, frastornante. Le spezie che qui si assaggiano sono miste, mischiate, sovrapposte e non guidano in modo chiaro bensì confondono, inebriano, respingono, seducono, soffocano. Chi cerca un testo teatrale prima che un’azione, non entri nemmeno nel cerchio magico delle sette sacerdotesse. Rischierebbe nel migliore dei casi di rimanere deluso. Nel peggiore, di morire affogato. Il testo, quando c’è, è quasi secondario all’azione. Ed è comunque un testo meticcio, che non chiede d’essere compreso nelle sue componenti narrative, bensì nel suo potere evocativo. Non è un testo, anzi. Sono brandelli di testo. Il testo è la superficie del mare ma ciò che conta è l’abisso che vi sottende. Pezzi di oggetti trovati sulla battigia, come quelli utilizzati nella scenografia dello spettacolo. Pezzi di testo. Ogni astante potrà raccogliere quelli che vuole e leggerli come meglio crede, montando la propria storia. I 28 spettatori entrano a gruppi di 7. Sette è il numero delle femmine. Sette è il numero delle ‘gambe di donna’. Sette sono gli spicchi di un ombrello-medusa che piano piano si comporrà sulla scena ad accogliere le altrettante ripartizioni di uno spazio magico, un cerchio delle streghe dove avvengono cose, dove si muovono corpi, dove si evocano questioni che salgono su dall’abisso. Entrati, si viene stipati su un’ipotetica spiaggia. Il centro illuminato dello spazio ospita un’istallazione contemporanea costituita dall’intricato intreccio di 28 sedie. Sedie impagliate. Lo spazio risuona del canto nenioso, per nulla rassicurante, di sette santone cubane biancovestite. Indossano turbanti eloquenti, colorati. Alcune hanno pendenti, altre collane di legni. Cantano, sorridono, la loro voce si insinua nello spazio come il sibilo di sirene. Le signore sono pronte per un rito, lo si capisce. E noi siamo testimoni di questa attesa sacra. Si percepisce un’atmosfera di santeria, di sospensione fra sacralità pagana e accenni di cristianesimo coloniale. Ma è un Sud ideale questo, un luogo non luogo che sta fori dal tempo e dallo spazio che conosciamo. Può esser un ogni dove, in un momento indistinto di una storia che si conosce per emozioni e non per nozioni. Siamo nel Sud. In un Sud afoso, soleggiato. Che convive con la risacca del mare. Un luogo archetipico di emozioni ventrali, di coralità ripetute, di esplosioni incontrollabili di energie vitali. Dove si gioca con cose ancestrali. E si muore. Dove le donne sono alleate di quell’immensa divinità femmina che lambisce l’intero spazio della vita. Quelle sedie iniziano a fluttuare nel vuoto. Le sacerdotesse invitano gli spettatori a seguirle. Sono richiami ambigui, non è rassicurante seguire le traiettorie di quelle sedie volanti che conducono i 28 prescelti alle loro postazioni. Teatro scomodo. Nel senso che apre fin da subito l’incognita del non sapere dove si va a parare. Che divide le coppie, gli amici. Li relega ad angoli distanti. Immerge in una solitudine che chiarisce subito una cosa: di fronte al mare siamo soli. Spettatori e soli. Quando il canto finisce, siamo pronti per il rito. Ciascuno potrà viverlo solo dalla sua prospettiva. Ciascuno lo vivrà in modo diverso. Ecco allora che le sette donne si fanno fanciulle irrequiete e sorridenti, ci raccontano di paesi lontani affacciati su spiagge di Caraibi. Si dirigono verso la spiaggia. Sulla battigia rinvengono cose, oggetti, frammenti di vita. Un cadavere incrostato di parassiti marini. E subito si avventano su quel corpo maschile, desiderose. Desiderare un morto. Apprezzarne la fisicità seppur sottratta all’alito della vita. Roba da far paura. Ma le sette dee manifestano la loro natura. Quella vera e terribile. Eccole scatenare una tempesta bianca, feroce, alitare venti e sollevare le onde di un mare lenzuolo su cui una scatola vascello sfida la sopravvivenza, perdendo la partita. Ogni via di fuga le è preclusa. Ogni volta che il veliero cerca di fuoriuscire da quel vortice di candore, una delle sette immense dee del mare la ricaccia nel centro. Alla fine il muro d’acqua si chiude sulla ciurma impazzita e fradicia. Finché l’abisso inghiotte tutto. Uccidendo. Ci sono immagini di abbacinante bellezza legate a questo sparpagliato sentore di morte. Cadaveri sulla spiaggia. Sotto il sole. Ed un gabbiano, mirabile fantasma che volteggia innanzi al cerchio degli astanti. Visione, suono, azione. Sembra di sentire echeggiare il malaugurante albatros di Coleridge. L’immagine sonora e visiva è di potente bellezza. Si parla della bellezza della morte. Ecco dunque che coi relitti trovati sulla strada, mentre si narrano brandelli di storia, si crea una sorta di fuso (bicicletta) che occuperà da qui alla fine lo spazio centrale della scena. Centro del mondo, del mare, dello spazio. Roteante perno dell’azione. Il richiamo è immediato alle Moire, le dee fatali che tessevano i fili della vita. Ma anche a certe fiabe che riconnettono a quell’oggetto girevole uno sgradevole senso di fatalità e di morte. A quel fuso-fungo, viene dunque incatenata una delle sette donne. Essa pare Ulisse legato all’albero, tanto desideroso di udire il canto delle sirene quanto spaventato dalla propria debolezza nel cedere alle loro lusinghe. La narrazione mescola le carte, confonde e somma i miti e le leggende. Si abbassano le luci e l’occhio luminoso della sacerdotessa-ciclope inizia a scrutare i volti degli astanti ruotando in una semioscurità che via via si accende di lontane pulsazioni abissali. Ecco Esteban. Il cadavere Esteban. (Il nome è quello del regista, è un caso o una sottile e ironica vendetta delle attrici-streghe rispetto al loro amato nemico dittatore?) Le moire decidono di farlo parlare. Di dargli voce. E lui parla. Parla dall’abisso che l’ha inghiottito e dove è rimasta la sua anima. Esteban sono 100 Esteban, Esteban non è un unico uomo. Non è il morto ritrovato sulla spiaggia e basta. Incarna mille voci di marinai traditi dal mare. Per questo egli parla attraverso ciascuna delle streghe. E ciascuna gli regala il colore, il timbro e la lingua dei paesi lambiti da un oceano che è crocevia di storie, Babele di traiettorie. Si parla pugliese, si sente il campano, un melodioso inglese, pure l’africano attraverso la lingua dei sordi… sono i 14 idiomi del mare con cui ogni Esteban rivela parti di sé, amore ed odio, attrazione e paura per il mare, spazio non umano abitato da pericolose sirene… a deep space. Deep and deeper. Si accende la festa. Scoprire la bellezza del cadavere accende nelle donne un senso di euforia sensuale e ridanciana. Esse lo ricompongono sulla scena, lungo una traiettoria obliqua. Gigante dai fascinosi attributi che nasconde un richiamo erotico tanto potente quanto perverso. Egli incarna l’alternativa alla mediocrità di una vita di rituale monotonia. Egli è l’uomo che esse non hanno mai avuto, l’alternativa ai loro compagni mediocri, abituali, comuni. Più morti di lui anche se ancora vivi. Seppur morto, egli costituisce un’evasione, l’alternativa. Ma anche in questo c’è qualcosa di terribile. Perché il suo corpo viene montato e poi smembrato da esse stesse. Madri e distruttrici, dunque, come quel mare che ha regalato alle donne del villaggio la magra consolazione di un corpo tanto bello quanto ormai corrotto dalla morte.




Veronica è un personaggio neotestamentario. È la donna che, durante il Calvario di Cristo, lo soccorse durante le cadute per asciugargli il sudore e il sangue dal volto. Sul panno ch’ella usò sul volto di Gesù, s’impresse l’immagine del viso divino. Quel velo rimane un feticcio millenario chiamato Veronica. Ci sono sette veroniche che oscillano nella penombra salmastra di Marén di fronte al volto degli spettatori. Dopo che il cadavere è stato compianto, amato, ammirato, Esteban-Cristo lascia la traccia del suo volto sui fazzoletti delle sacerdotesse e ciascuno dei presenti vedrà su quei fantasmi di stoffa il viso del proprio annegato. Uno dei 100 Esteban evocati dalla dea-ciclope, uno degli Esteban che parla uno dei 14 idiomi… Nel frattempo, dall’arcolaio magico - albero della cuccagna - totem sacrificale – altare collocato al centro dell’evento, si dipanano stoffe a raggiera e alle spalle del pubblico si distendono pareti di nitore. Si rimane chiusi dentro un padiglione di calura riarsa, sotto una medusa candida, dentro un pentacolo che lascia presagire la conclusione del rito. Sembra di starsene seduti su uno dei lunghi e sottili tentacoli di una gigantesca ofiura, elegante creatura dei mari, ennesima trasformazione o evocazione delle sette dee. Esse, le ancelle di Yemaja patrona dei naufraghi, dell’Oceano e delle donne incinte, generatrice e distruttrice, mutano forma nuovamente e tornano a dare voce al defunto. Si agglomerano così in una creatura gelatinosa, una di quelle misteriose entità marine di splendida trasparenza che danzano trascinate dai flutti. Corpi fluttuanti, pulsanti, autogerminanti. Da questo Proteo in lento movimento, emerge via via il volto e il corpo d’un Esteban che canta il suo essere morto. Corpo intriso d’alghe, poesia intrisa d’abisso. Questa è la parte dello spettacolo dove l’abisso e la superficie del testo si avvicinano nel modo più potente. Qua è bene udire, ascoltare. Si racconta del morire, dell’essere andati oltre, del dove si sta (o del non essere più) e del rinascere frutti che un bambino addenterà. Ma quando ciò avverrà, sarà altra vita. Un altro spettacolo. Un altro viaggio. Il sottobosco della medusa si popola di pezze colorate. I colori penetrano il nitore della spiaggia assolata. Si preparano altari. Per un sacrificio o per un funerale. Le sette sacerdotesse si dispongono sull’ofiura simili alle lavandaie celtiche del guado. La lavandaia del guado è una figura arcaica, dea dell’acqua e della tenebra. “Nella tradizione della letteratura sulle fate, la dea della tenebra è nota come “la lavandaia al guado”, uno degli aspetti della Morrigan ovvero “Grande Regina”. E’ lei quella che incontriamo al momento della morte fisica, quella che lava la nostra anima e la prepara alla rinascita. E’ un incontro ineluttabile. Ma possiamo cercare di incontrarla durante la nostra vita, in modo che il suo lavaggio tolga di mezzo consuete abitudini negative che ostacolano il nostro progresso”. Così scrive Hugh Mynne in ‘La via delle fate’. Così le sette dee si accingono a costruire corpi-feticci di bambino con asciugamani canditi e federe. Con quelle stoffe corporee, dunque, che lambiscono la testa, il corpo, l’intimità. Con lentezza rituale si compongono innanzi ai nostri occhi i corpi di sette fanciulli. Sette cadaveri. Sette Cristi, sette Esteban. Poi, con similare e simmetrica lentezza, i brandelli di questi fanciulli vengono immersi nell’acqua pura, lavati, rimestati. In un impasto che presagisce il rifluire dell’essere dentro una materia cosmica, plasmante. L’acqua. Da essa si viene, ad essa si torna. Alla faccia di quel terribile ed ingiusto fango di cui ci parlano le scritture mitologiche più brutte che si conoscano, quelle ebraico-cristiane. Prive di poesia ma pregne di peccato. Qua, in un mesto dolore, si ricorda invece che acqua eravamo e acqua torneremo. E ciò non sarà conciliante. Non sarà appagante. Perché il congedarsi può anche non essere drammatico ma non mai felice. Il prendere atto del congedo è qualcosa contraria alle leggi degli affetti. E anche a quelle della natura. La natura dona e prende, consegna e toglie senza criterio. Siamo noi che sentiamo il bisogno di vestire lo strappo, la sottrazione di un senso rituale che chiamiamo congedo. Dando senso a ciò che senso in sé non ha. Il congedo è l’ennesimo artificio dell’uomo che altro non è che una bestia cui è stata concessa la penosa condizione d’essere ‘razionale’. Noi siamo fatti per legarci e non per lasciarci. Anche le sette dee devono lasciare Esteban. Riconsegnarlo all’elemento acqueo che lo ha abbandonato sulla spiaggia al pari di tutto il resto. Per la madre oceanica Esteban è come il legno consunto del ramo, come la conchiglia spezzata, il frammento di vetro, la carcassa di un pesce, il relitto di un veliero, il maleodorante groviglio di sargassi… è una cosa come un’altra gettata sulla riva. Ora egli torna indistinto. Torna acqua. La sua anima ripartita in sette, viene appesa a sgocciolare. Si disfa perdendo consistenza solida. Torna alla sua origine. Si chiude così la lunga cerimonia delle sacerdotesse del mare. Il buio le trascina via con sé lasciando lo spazio pregno di suono. Suono sgocciolante di acque. Sarà possibile riscrivere una cosmogonia nuova che ci dica: ‘E in principio fu l’acqua. E l’acqua era femmina e generò l’uomo, dopo di che lo uccise per ricordargli ch’ella aveva su di lui potere di vita e di morte. Dunque lo generò di nuovo e lo gettò nell’Oceano perché imparasse a nuotare. Sulla superficie. E intanto, mentre lui tentava di sopravvivere, dagli abissi ella lo fece assaltare da immense paure per trascinarlo laggiù, nell’utero buio e umido dal quale tutto viene e al quale tutto torna’. Marén è uno spettacolo componibile, un caleidoscopio di suggestioni che ogni partecipante può costruire con gli elementi che meglio percepisce o preferisce. Ciascuno se ne viene via con un suo Marén, un suo viaggio, un suo percorso. Così, del resto, funzionano i riti. È dunque vero teatro, quello originario e dionisicaco che riconnetteva i partecipanti ad una funzione liberatoria, esorcizzante, pericolosa. Addirittura è così dionisiaco che le sette attrici a tratti diventano menadi. Sembrano le bacanti protese sul corpo di Orfeo per smembrarlo. E non fu un caso che la testa del mitico cantore, una volta dilaniato da quelle donne invasate, giungesse su una spiaggia trascinata dal mare…. Tutto ritorna. Esteban-Crito-Dioniso-Orfeo. Un quadrilatero inquietante. Marén oscilla fra teatro, danza, coreutica. Si tratta fondamentalmente di un coro, di un’azione drammaturgica prima di tutto visiva e sonora, poi anche testuale. È un’ennesima frontiera appena superata, un limite indagato e varcato con tutti i rischi e le potenzialità che ciò comporta. Alcuni difetti a detta di chi scrive: - la coralità musicale è talmente preponderante (si canta moltissimo, spesso) che le intonazioni e l’aspetto formale del canto vanno controllate decisamente meglio (soprattutto perché intralciati da stanchezza e fisicità perenne, le attrici tendono a perdere fiato e concentrazione sul tono). Il livello medio del canto non è all’altezza degli altri piani dello spettacolo per cui molto spesso disturba e trasmette un’idea di impreparazione (specificamente in questo ambito rispetto al resto). - La prima metà dello spettacolo presenta fasi rumorose molto suggestive che rischiano però di coprire il testo. Ora, fermo restando che il testo non è la cosa più importante, non può nemmeno divenire un dettaglio trascurabile. Se un attore parla si presuppone che sia necessario udire ciò che dice. I tonfi, i rumori, il movimento spesso ottundono la voce. Molte attrici mantengono toni vocali inadeguati alla potenza della scena, il che smorza la tensione richiesta. - La scena finale del bambino di panni è bellissima però l’immersione dei pezzi, altrettanto lenta della loro costruzione, diviene oggettivamente pesantissima. Nonostante la bellezza e la bravura delle attrici, si percepisce che ciò è determinato da loro ricerche personali ma ciò non trova adeguata rispondenza nella soluzione formale che un prodotto artistico deve avere. In sintesi: quella lentezza nell’immersione ha senso per le attrici, non per il pubblico. È l’unico momento dello spettacolo in cui ho pensato che stavo provando fatica, anzi! Si rischia di perdere la sensazione di bellezza struggente del momento precedente quando le sette madri compongono il figlio pezzo per pezzo. All’inizio ci si chiede cosa sia, poi si comprende e ci si commuove…. La parte dello smembramento e della lavatura appesantisce e toglie commozione. Una soluzione più snella non toglierebbe nulla, anzi, darebbe ancor più valore a questa mesta scena finale. Detto questo, si tratta di uno spettacolo da vedere e rivedere, da studiare in profondità (perché di profondità parla) da tute le più possibili angolazioni… Rimanendo in tema di numeri simbolici, si tratta di uno spettacolo che sarebbe opportuno vedere almeno 28 volte! Con riconoscenza.

mercoledì 22 ottobre 2014

Attenzione agli aggettivi sostantivati. Possono nuocere.

Riflettere sulla lingua è una deformazione professionale per me. Cercare di capire i meccanismi profondi e di superficie mi aiuta a collocarmi nel cuore di un epicentro che irraggia molteplici rami di senso ovunque, in ogni direzione. Ragionare sulla lingua porta a capire le sedimentazioni della storia, l'importanza del ragionamento e della logica, la non casualità dei perché, gli scopi e gli effetti della comunicazione (sia essa buona o cattiva), le barriere terribili che le lingue erigono fra gli uomini (anche all'interno di una stessa lingua condivisa), i pericoli nascosti e le potenzialità inespresse. Insomma, la lingua, ogni lingua, è un universo complesso, disseminato di costellazioni. E vi sono distanze negli orizzonti da essa sottaciuti, che possono persino spaventare per chi intenda percorrerla fino alle sue verità.
Bene.
Ragionavo in questi giorni, mentre guido andando a scuola o tornando dopo ore di lavoro coi bambini, sul rischio altissimo della sostantivazione dell'aggettivo, che è moda tutta attuale frutto di un diffuso, cattivo uso della lingua soprattutto in quella landa sconsolante, arida e ormai avariata che il giornalismo.
L'aggettivo, soprattutto quello qualificativo, esprime un valore aggiunto, denominato attributo, ad un soggetto o ad un complemento. Diciamo che si aggrappa ad un sostantivo come una malia, come un incantesimo. Su quel sostantivo l'aggettivo riversa un potere ancestrale e fortissimo, ne sposta il centro, il fulcro.
Se dico bambino, voi vedete qualcosa di generico. Al più pescate in voi un'immagine archetipica del bambino a voi più congeniale.
Ma come aggiungo al termine un aggettivo, ecco che tutto si addensa e si sposta altrove.
Dico bambino biondo, e voi subito restringete il campo degli archetipi visualizzando giovani teste color grano.
Simpatico bambino biondo, e saranno teste bionde e sguardi furbi o seducenti.
Bambino infelice: l'immaginario andrà ancora lontano.
Bambino marocchino: e di nuovo archetipi e stereotipi faranno a gara per salire dai vostri abissi interiori per disegnare un'immagine.
Bene.
Non che io sia amante della genericità. Anzi. Mi si critica spesso perché nel mio scrivere io abbondo di aggettivazioni. Le amo, ne ho bisogno perché penso che aiutino a circoscrivere e rendano le frasi dense di significati e di direzioni. Però, appunto, io sostengo l'aggettivo in sé sapendo quale insidia nasconda. Attingo con rispetto e cautela al suo antico potere che per gli Egizi, ad esempio, fu appannaggio del magico Toth, dio dalla testa di Ibis incaricato di registrare la complessa cerimonia di trapasso delle anime. A ciascuna egli affidava un aggettivo.
Legava la magica parola astratta ad un sostantivo concreto.
Al corpo regalava una sfumatura dell'anima, buona o cattiva.
Bene.
Cosa facciamo oggi?
Una pessima cosa. Per economia e per rafforzare i pregiudizi che tanto pullulano come la muffa nei tempi epocali di decadenza e tensione come quelli attuali, ecco che togliamo i sostantivi e lasciamo che le pericolose parole antiche, gli aggettivi, galleggino da sole prendendosi tutto, mangiandosi il senso e sovvertendo la logica.
Per cui se una persona di origini albanesi, una persona albanese dunque, in stato di ubriachezza al volante, travolge ed uccide qualcuno, noi non diciamo questo bensì riportiamo che 'Un albanese ha ucciso qualcuno'. Voi capite subito che qualcosa non va. Non va perché la sostantivazione dell'aggettivo, come una calcificazione ossea, ha prodotto un'anomalia. La vaghezza insita nel sostantivo 'persona' scompare. L'aggettivo, però, anziché circoscrivere, fa propria quella vaghezza e, per cortocircuito, la muta in genericità.
Pericolosa genericità.
Gli albanesi uccidono in stato di ubriachezza.
Chi sono gli albanesi? I rumeni? Gli africani?
Queste generiche masse di aggettivi che hanno perso i corpi solidi seppur indefiniti a cui appartenevano? Perché vedete, io credo così che si perda il senso della solidità. Che la nostra lingua diventi debole di senso e ed invece cattiva come lama che taglia.
Si potrebbero fare molti casi, anche legati alla scuola. I bambini marocchini divengono spesso marocchini. Si possono talora udire insegnanti che dicono: 'Che ci vuoi fare, il mio marocchino non parla bene l'italiano è arrivato solo un anno fa.'
Il mio marocchino significa il mio alunno marocchino.
Che significa il bambino di origini marocchine che si trova nella mia classe.
Ma se omettiamo il sostantivo, ecco che di lui rimane solo il pericoloso generico addensato di poca conoscenza e pregiudizio che alberga su quel termine.
Non conta che sia bambino, che sia parte di un sistema (elementi questi che lo accomunano agli altri nel generico ma importante insieme spalancato dal sostantivo), conta solo l'attributo che l'aggettivo gli dona caricato della genericità dovuta alla mancanza del nome a cui si riferisce.
Così vorrei sentire dire le donne e gli uomini omosessuali e non gli omosessuali; vorrei sentire dire le persone tossicodipendenti, le donne casalinghe, le persone anziane, gli uomini separati, le persone disabili, i bambini dislessici, le persone extracomunitarie e così via...
Dovremmo dirlo al cattivo giornalismo, dovremmo fermare le discussioni populistiche, il chiacchierare tanto per farlo che non nuoce a chi lo pratica ma che è letale per chi ne è vittima.
Vi prego: unite sempre agli aggettivi il loro sostantivo.
Non concedete a queste belle o terribili parole magiche la libertà che un dio antico, dalla testa di Ibis, seppe giustamente imprigionare per contenere il loro sconfinato, dirompente potere.




sabato 11 ottobre 2014

Ha senso ancora insegnare?

E' un mese circa che è iniziata la scuola.
Sto vivendo il momento vertiginoso della conoscenza.
Ho 14 piccoli allievi di sei anni. Estatici, vivaci, irrequieti ma felici di scoprire. Mi piace stare con loro, frequentarli, ascoltarli e vedere, da posizioni defilate, come lavorano, come risolvono le varie problematiche che l'apprendimento, così come lo intendiamo nella mia scuola, pone loro.
Insegnare osservando è qualcosa di immensamente appagante.
Insegnare.
La scuola funziona come una sorta di bolla.
Anche se devastata, cadente, minata, mi protegge.
Come rientro nel flusso esterno della vita sociale, della politica, come mi affaccio sempre più arrabbiato, acido e corrosivo (perché penso che sia giusto così) nel dibattito schizofrenico dei social forum, vengo investito da una sofferenza, da uno sfiato d'abisso che mi percuote facendomi davvero male.
Alla fine ne ricavo, sempre, inesorabilmente, una visione del mondo, della società, dell'uomo e di me stesso che non mi piace, anzi, mi ributta, delinea con chiarezza un'amara realtà che sembra non potersi riscattare.
Alle soglie dei 40 anni la dimensione reale e sociale del pianeta e dei vari particolarismi a cui appartengo si è come spogliata di ogni ottimismo, d'ogni volontà di accontentarsi, di ogni tentativo di dire che c'è anche qualcosa di buono. Perché qualcosa di buono c'è, e io lo sottolineo a me stesso prima che agli altri. Ma il molto, il più che dipende da noi, non è buono.
Alla fine pervengo a questa conclusione: l'uomo è un animale.
Nulla di più.
Un animale. Che equivale a dire che ci siamo illusi che il pensiero evoluto ci rendesse altro. Siamo bestie. Capaci di coesione come di violenza, miranti all'autoconservazione per principi istintuali. Incapaci di accedere davvero alle sfere evolute del nostro apparato cerebrale.
Sappiamo disquisire e sfoggiare, ma raramente il nostro sapere (se c'è) è messo al servizio del gruppo sociale. Raramente ci modifica per renderci saggi.
E chi si gongola nella propria cultura, esternando cinismo o razionalità fitta di citazioni, partecipa dello stesso gioco di chi, invece, procede solo col ventre, sputa sentenze e non ha cultura per sostenere le proprie bassezze.
Manca la connessione.
Non c'è stata, nella nostra storia evolutiva, la capacità di equilibrare l'arcaica forza animale delle emozioni con le più evolute sostanze del pensiero complesso. Sicché o siamo bestie pensanti e sprezzanti o siamo bestie ignoranti e istintive.
Che senso, ha dunque, insegnare?
Cioè, mi chiedo, in che direzione deve procedere un animale docente di fronte ad una nidiata così bella di cuccioli sapendo già che il mondo esterno alla bolla è capace, in pochi minuti, di annientare ore e giorni di formazione? Di tentativi di connettere quelle emozioni a quel pensiero evoluto?
Sì, perché poi c'è la rischiosa sensazione di essere, in quanto insegnanti, superiori a questo stato animale delle cose.
Ed invece no.
Siam bestie anche noi.
Ma un senso io lo trovo. E su questo procedo.
Quando l'uomo pensa, si immerge in una dimensione superiore. Eleva il suo stato animale, puramente emozionale, ad un livello esterno di comprensibilità del mondo e di se stesso.
In certi momenti, questo stato di grazia, se e solo se sfugge il compiacimento o lo snobismo, produce un incanto assoluto che ci fa intravedere la grandezza dell'individuo, dell'essere in quanto tale.
Dobbiamo a quei momenti, i grandi monumenti del pensiero civile. In primis la nostra Costituzione. Basterebbe quella a guidarci su binari di equilibrio. Perché quel testo tanto ardito, riesce proprio laddove l'uomo, in sè, non riesce: a compenetrare in equilibrio ragione ed emozione, pensiero e memoria, riflessione e slancio, legge ed empatia.
Comprendo che ciò esista solo in un piano mentale, nelle idee e non nel reale. Questo, ormai, mi è chiaro. Io penso che la grandezza del nostro pensiero alberghi fuori di noi, sia uno spazio che creiamo come splendide architetture. Ma un grattacielo, anche il più bello, non è l'architetto che lo ha realizzato. Il dipinto più sublime non è il pittore che lo ha dipinto. Il testo più bello non è lo scrittore che lo ha scritto. La costituzione più splendente non è la società o il gruppo che l'ha pensata. Ciascuna di queste opere è migliore di chi l'ha progettata. Ma il grattacielo vuole il suo architetto, il dipinto reclama il suo pittore, non c'è libro senza scrittore, casa senza muratore, costituzione senza costituente.
Ed ecco perché insegno.
Perché ci siano bravi architetti, degni muratori, profondi scrittori, genitori capaci di amare con saggezza, uomini destinati a creare altre costituzioni, viaggiatori per un domani che non mi compete, orizzonti che non varcheremo noi. Forse migliori.
E poi, soprattutto, insegno per me. Per cambiare. Per cercare, faticosamente, l'equilibrio che possa rendermi, forse, un poco meno bestia ma più animale degno.
Forse.
Insegnare perchè forse...
E' già tanto.









martedì 10 giugno 2014

Una cosa bellissima



UNA COSA BELLISSIMA




Ieri sera è successa una cosa bellissima. Io ed Elisa, per sostenere il progetto 'Il sogno di un viaggio diverso', abbiamo creato un programma di 14 canzoni, 7 cover e 7 pezzi degli Actias Luna. Le eseguiamo in duo, voce e piano o arpa, o arpa e piano in alcuni casi. Abbiamo intitolato questo programma minimale '14 passi verso il sogno...' e abbiamo inventato la formula del concerto domestico. Chi vuole sostenerci ma magari non può o non riesce a fare la donazione online, raduna alcuni amici a casa e noi realizziamo questa piccola magia musicale. Ieri, appunto, abbiamo varato questa formula ed è accaduta una cosa bellissima. La mia collega Virna ha radunato le colleghe di Bozzano con famiglie ed amici nella sua piccola, graziosa casetta di Loppeglia, sulle alte colline della Val Freddana. Posto magico.
Ognuna aveva portato da mangiare qualcosa di preparato a mano: torte salate, torte dolci, affettati, formaggi, stuzzichini, buon vino da bere. C'erano anche dei bambini e dei ragazzi. L'atmosfera, fin da subito, è stata di rilassata convivialità. Nelle antiche strade ripidissime di Loppeglia la luce del tardo pomeriggio, caldo e denso della prima estate, scivolava verso le vallate verdi intorno. Nel silenzio del borgo si sentiva soltanto il ronzio di qualche insetto, lontani scampanellii di capre o pecore e le nostre voci ridenti. Io ed Elisa ci siamo sistemati in un angolo del terrazzino d'accesso alla casa. Alle nostre spalle, in basso, le colline ammantate di boschi oltre un'antica aia abbandonata. In alto un cielo serotino terso. Le persone si sono sedute sui gradini, altre per la strada, qualcuno sulle poche sedie collocate sul terrazzo. Il nostro concerto è iniziato così. E la natura ci è venuta incontro. La luna è sorta alle spalle di Elisa mentre cantava. Senza amplificazione. Il luogo potenziava la sua unica, struggente e colorata voce senza bisogno di altro che quella preziosa attenzione. Volti sorridenti, divertiti, poi commossi, poi di nuovo divertiti e poi affascinati. Io trovo speciale quando qualcuno ascolta la nostra musica con tanta grazia e tanta dedizione. Penso di ricevere un regalo unico. Si è fatta notte e alla luce di lanterne il nostro concerto si è intervallato a momenti conviviali, a risate, a confidenze. Qualcosa di straordinario da non dimenticare. Alla fine queste persone speciali ci hanno fatto la loro donazione. Preziosa, utile. Stamani essa è stata regolarmente versata sul progetto crowdfunding spingendo il nostro sogno al 38% della sua realizzazione. Ma la vera donazione è stata quel senso di accoglienza, di calore e di interesse sereno verso la nostra musica. Qualcosa che non potremo mai dimenticare e che rimane una perla luminosa della lunga storia del mio gruppo. Nel ringraziare tutti i presenti, molti dei quali non sono qua su Facebook, ricordo anche i nostri compagni di viaggio musicale Francesco Massagli, Gerard Bigfrancis Grooveman, Giovanni Nocera, Raffaello Terreni) che sono stati, nell'assenza, presentissimi in ogni passaggio. Un grazie all'ospitalità preziosa e attenta di Virna e Riccardo, a Giulia meravigliosa compagna di viaggio e a Miranda ed Elia, a Licia che si è emozionata con noi, a Sara, a Luca e i loro tre straordinari figli, a Ilaria, Tamara, a Fabiola, a Katia, a Barbara, a Cristina, a Samuele, alle amiche di Virna di cui non ricordo il nome ma che sono state attente e affettuose ascoltatrici. Grazie!

martedì 13 maggio 2014

Una riflessione a margine di Victor Hugo.

Sto leggendo 'I lavoratori del mare' di Victor Hugo. Me ne è capitata in mano una versione del 1928 tradotta in un italiano bizzarro, datato e pieno di formule così astruse delle quali a volte, a scapito delle situazioni descritte, rido come uno scimunito. Ma giuro che lo finirò in questa versione antiquata perché, per paradosso, la forza della storia narrata mi giunge insolitamente più integra che se usufruissi di una traduzione moderna. Premetto che Hugo non è un autore col quale risuono proprio benissimo. I Miserabili attendono ancora ch'io li finisca di leggere essendomi stufato dopo circa trecento pagine: le divagazioni, una vera ossessione limitante dell'autore, mi avevano fatto perdere gusto per il succo della storia. Penso che Hugo sia un mestierante della letteratura molto prolifico, capace di pagine superbe ma con un difetto imperdonabile: l'incapacità di condensare il filo narrativo. Idee splendide, potenti personaggi, trame contorte seppur funzionanti ma troppe, troppe divagazioni nelle divagazioni che si allontanano dal percorso tanto da confondere o annoiare. Manca a Hugo ciò che fu l'abilità massima di Dickens, ovvero la maestria nel comporre, nel mixare, nel montare ad arte una trama seppur frantumata.
Ma non è di questo che vorrei parlare anche perché non conosco tutta l'opera di Hugo.
Mentre leggevo la mia grottesca versione dei 'Lavoratori del mare', destreggiandomi anche qua fra mille divagazioni, sono incappato in due periodi di fulminante lucidità.
Eccoli:
'Il non distinguere è errore.'
'Esiste l'intolleranza dei tolleranti, del pari che la rabbia dei moderati.'
Che gusto particolare si prova quando uno scrittore riesce in poche, fulminanti parole a enucleare concetti che senti profondamente tuoi e che tu, però, avresti dovuto esprimere con almeno due decine di parole in più!
Io penso davvero che il non distinguere, il non sapere discernere, sia uno degli errori più gravi che si possano commettere. Questa frase lapidaria nasconde un mondo, un universo etico. Per chi insegna, ad esempio, essa dovrebbe funzionare come monito. Non solo perché l'insegnante ha il dovere morale di saper distinguere le infinite motivazioni di un percorso formativo fatto di conqusite, perdite e crisi, ma perché, soprattutto, compito di un educatore è quello di fornire strumenti per poter discernere. Non si insegna cosa è buono e cosa no. Si insegna a capire cosa è buono e cosa no. Si insegna a distinguere. Si offrono strumenti per comprendere la complessità senza banalizzarla. Distinguere è sinonimo di cogliere le differenze, percepire le sfumature, comprendere l'adeguatezza di ciò che avviene in un preciso momento e in preciso luogo. Si finisce così per recuperare un senso altissimo, perduto ed etico della forma, ad esempio. Forma e sostanza non sono cose divise, anzi! L'una è parte dell'altra. Saper distinguere ci restituisce piena percezione che le forme dell'essere e del comportarsi non sono pura educazione estetica bensì profonda percezione della sostanza.
Riguardo alla seconda frase, sono anni che polemicamente mi dichiaro avverso ai pensieri moderati, vagamente pacificatori, che esalano un astratto concetto di tolleranza (che, andrà ricordato, significa sopportazione). Pensando a certi intellettuali radical chic, a certi vegani modaioli dell'ultima ora, a questo amore di molti per i pensatori 'alternativi', di guru, di occidentali convertiti a forme patetiche di buddismo inconsapevole.... beh, ecco, trovo potentissimo ed attualissimo quanto espresso dallo scrittore francese. Perché è verissimo che in certe forme di ostentata tolleranza si nascondono invece convenzioni e rigidità incredibili così come è vero che in molti gruppi di presunti portatori di pace e moderati cova una rabbia latente determinata dall'insoddisfazione esistenziale di chi per castrazione psicologica, incapacità caratteriale, vissuto, non riesce a scaricare quell'emozione così umana. La rabbia viene così rimossa, soffocata, con procedimenti perversi e motivazioni altrettanto contorte. Cova dentro, avvelena l'anima, alimenta scorrettezze, invidie, atteggiamenti ambigui. Gli arrabbiati non rabbiosi, ahimé, sono quelli che riportano le parole dette alle spalle, che riferiscono le malignità, che attendono che altri possano dare voce e gesti alle loro soffocate frustrazioni. Cercano giustizia attraverso gli altri e in questo costituiscono uno dei pericoli più significativi della vita comunitaria.
Il vero tollerante non si proclama tale. Lo è nei fatti, lo dimostra.
La rabbia esiste e va accolta. Solo nel prenderne atto riusciamo a liberarla, darle una direzione e a ritrovare la pace. Trattenerla in noi, provoca solo pericolose ebollizioni.
Grazie Hugo!

sabato 10 maggio 2014

Memorie di un maestro precario: l'arte, gli Uffizi e 25 bambini. Un perché è ancora bello essere italiani.

Giotto descritto da Altissimanarratrice e Silentemistero
Sfinito e distrutto mi sono addormentato, ieri sera, con un senso di pienezza raro. Commuoventi le due ore passate negli Uffizi con la folla di stranieri che si è portata a casa un'immagine dell'Italia bella e potente. E non pensavo alla nostra millenaria arte grandiosa conservata in quel Museo unico, ma ai nostri bambini che con magica bellezza descrivevano i quadri ai compagni,seduti silenziosamente (o quasi sempre silenziosamente) a terra in ascolto, combattendo il brusio di fondo e la maleducazione di molte guide turistiche che ci volevano scacciare senza riuscirci.

Piero della Francesca descritto da Appasionatocorretto e Rickettararilassata.

I bambini emozionati e professionali, ci hanno raccontato: la vita degli artisti; quando quell'opera specifica era stata dipinta e per chi; cosa essa rappresentava e quale tecnica era stata usata. Gruppi di italiani e stranieri si fermavano, anche senza capire ascoltavano, sorridevano... ed anche altri bambini. Un fotografo cileno ci ha seguiti sedendosi con noi, alcuni custodi si sono complimentati per questo raccoglimento che non invadeva ma anzi, richiamava...

Ghirlandaio proposto da Biondoflemmatico e da Storicoincartato
 poi ho visto altre bellezze, non eravamo gli unici: due professoresse della secondaria con un gruppo attentissimo di ragazzi tessevano fili di racconto fra i dipinti e mi sono sentito parte di un progetto italiano, di insegnanti e di studenti in collaborazione. Sentivo che riscattavamo tutti assieme l'idea diffusa dell'Italia caciarona e incapace di valorizzare il proprio patrimonio.

Durer raccontato da Disordineilluminato e Graficoinsicuro

 Stavamo facendo qualcosa di moderno, anzi, modernissimo, ammirando il nostro passato e rendendolo comprensibile. E questo non perché io, Giulia e Ilaria o quelle due professoresse fossimo chissà quali insegnanti speciali. No. Questo avviene perché la Scuola Italiana, ora distrutta in mille isole alla deriva, continua a tenere.

Botticelli penetrato dal Trio Lescano: Piccolaguerriera, Poetessascontrosa e Disperatapittrice
 Solo in questa Scuola, pubblica, tenace, ferma nella convinzione che la cultura e la bellezza devono essere di tutti, inclusive, ricche di potenzialità e strumentalità formative si possono ottenere magie come quella di eri. 

Leonardo esplorato da Inconsapevoleartista e Fieraschiettezza

Raffaello intervistato da Scrittriceloquacissima e Mateamaticointroverso
 Grazie ai bambini e alla loro anarchica capacità di vedere dentro l'arte. Un grazie anche ai Musei Nazionali che permettono l'ingresso gratuito ai ragazzi: altro segno di civiltà e di illuminata concezione della Cultura che dobbiamo difendere, alimentare, far conoscere.
Caravaggio indagato da Intuitivapolemica e Paciosotenace

Michelangelo descritto da Delicatatrasparente e Occhioamandorlaacuto.
  Ieri sera, pieno di gioia, mi sono addormentato sentendomi vicino alle mie colleghe e ai miei ragazzi e ai miei musei e al mio Stato martoriato. Stranamente felice di essere un insegnante precario italiano. Sì! Italiano.

Piero di Cosimo illustrato da Brillantezzapigra e Integerrimosguardo

Tiziano indagato da Scienziatologorroico e Saturnocontro

Paolo Uccello resocontato da Parlatoreaduemila e Razionaleoppositivo



lunedì 21 aprile 2014

Perché anche quando risorge, Cristo non ride mai?


In questi giorni di Pasqua mi giungono graditi da più parti auguri di Buona Rinascita. Che la Pasqua cristiana coincida quasi sempre con l'esplodere fecondo della Primavera è una questione antica, legata ai culti della rigenerazione e del tempo propizio. Ora, mi chiedo perché un argomento tanto affascinante e bello, anche per le energie che esso comporta in termini di apertura alla nuova stagione, sia stato risolto dalla Religione Cristiana Cattolica con l'ennesima severità.

Maestro dell'Altare di Trebon
Facendo una veloce stima, ho realizzato che nell'ingente mole di arte sacra sopravvissuta ai secoli, il tema della Resurrezione ha avuto una sua fortuna costante ma decisamente inferiore, per quantità, a quello della Crocifissione. Il Cristianesimo ha figurativamente esaltato più la tortura e la morte del Figlio Incarnato di una divinità, più che la sua Rinascita che, almeno per umana empatia, dovrebbe essere invece motivo di gioia ed emozione. Con Cristo risorto, ci dicevano al catechismo, rinasce un Nuovo Mondo. Ridiamo dunque, gioiamone. E invece no. Nell'immaginario figurativo della Resurrezione nell'Occidente Crstiano, Cristo se ne esce dal sepolcro con la stessa aria severa, quando non sofferente, che lo caratterizza in tutte gli altri episodi della vita.
Antonello da Messina, Cristo alla Colonna
Senza nulla togliere alle splendide soluzioni offerte del tema da Giotto, Piero della Francesca o Perugino e tanti altri, devo comunque accettare che la religione cristiana ha sempre prediletto la morte e il dolore. La Croce, questo simbolo così terribile e per me inaccettabile, vince su qualsiasi riscatto effettivo possa leggersi negli eventi che seguono al seppellimento di Gesù. Si tratta, ad avviso di chi scrive, di una chance perduta. Avremmo potuto riconciliarci almeno alla fine con un figlio di Dio che è sempre, perennemente, cupo o severo. Non ritrovo, nemmeno nelle pagine dei Vangeli a dire il vero, momenti di serena gioia, sorriso e effettiva luminosità di Cristo. Egli rimane sempre giudice, austero, sobrio, buono ma mai leggero. E ciò dispiace perché in questo la figura perde di quell'umanità che tanto vogliamo attribuirgli e che io, per mia personalissima condizione esistenziale, fatico invece a rintracciare. Cristo non ride mai. Ora, se negli atroci momenti del dolore e della tortura, la sua umanità si mostra ostentatamente violentata e sofferente, perché mai, una volta risorto, quel giovane così bello e importante non ci concede l'energia feconda di un sorriso? Possibile che nemmeno la Primavera, la pagana versione feconda delle antiche dee genitrici, nel suo esplodere di bellezza, turgore e luce, sia riuscita a dirottare secoli di dottrina incentrata solo sul rimprovero, sulla mistificazione del dolore, sull'esaltazione di un amore perverso che si infiamma solo nel sacrificio di un figlio? Sarò sempre contrario a un Dio che immola suo figlio per la salvezza di tutti. Ma accetterei quel figlio se almeno il giorno in cui egli pare vincere la morte, motivo per cui sarebbe venuto sulla Terra, esso ci concedesse ciò che di più+ umanamente bello esiste: il sorriso.

Francesco Cossa, mese di Aprile (trionfo di Venere)