sabato 25 agosto 2018

LINDSAY KEMP, LE MIE NONNE E COME NASCE LA FOLGORAZIONE.



Avrò avuto circa 12 anni.
Bruttissima età. A scuola mi barcamenavo.
Ero un goffo saputello incastrato dall'acne, da una voce maledettamente femminea, da una ricerca personale che spesso andava dove avrei preferito che non andasse, da amicizie faticose e bullismo a tutta randa (ovviamente subìto, anche fisicamente).
Il mio amico migliore era il pianoforte e la cosa, lo si capisce, non era molto sana per un adolescente già incline al solipsismo.
Anni brutti, ma brutti davvero.
Tuttavia qualcosa di buono c'era.
Le mie nonne erano abbonate alla stagione teatrale del Giglio. Da anni e negli anni a venire, quelle due consocere così diverse fra di loro, avrebbero condiviso assieme questa passione tutta borghese per la prosa. Ogni tanto, se ritenevano che lo spettacolo fosse adeguato alla mia età, mi portavano con loro comprando un biglietto per me.
La cosa mi rendeva felice. Dopo il pianoforte, le mie migliori amiche erano le mie nonne. Tanto per ribadire che qualcosa non andava.
Mi univo a queste due signore borghesi ma divergenti da qualsiasi stereotipo e mi immergevo in un mondo che mi piaceva forse più per l'atmosfera architettonica e rituale che non per quello che ci si faceva dentro.
La struttura, la dimensione luminosa, il gigantesco lampadario, i palchetti, quella sobria sontuosità che il teatro del Giglio presenta, mi facevano stare bene. Ecco - dicevo - finalmente un posto dove io sto bene.
Poi accadeva che anche qualcosa di quello che mi veniva proposto, mi colpisse ma era cosa rara. Durante l'Iliade del Teatro del Carretto mi addormentai, tanto per fare un esempio.
Ma Laura e Modesta non desistevano e fecero bene.
Continuarono a portarmi a teatro quando lo ritenevano adeguato.
Evidentemente le mie due portentose nonne sapevano quanto certe cose, in verità, avrebbero lasciato in me un segno. Visionario, lirico, creativo.
Perché non era il teatro recitato a piacermi (lo avrei apprezzato più tardi e forse, sinceramente, mai del tutto) ma le cose strane, la danza o ciò che giocava, trasformandone il senso d'uso, con gli oggetti e le luci. Ricordo a 10 anni, sempre con questi due pilastri della mia formazione infantile, di essermi divertito ed incantato col Cirque invisibile di Jean-Baptiste Thierrée e Victoria Chaplin. Iniziai a creare spettacoli domestici con ombrelli, veli, marionette.... era quella roba lì che mi piaceva.
Erano le radici di un immaginario che non mi ha più abbandonato.
Ma quando avevo 12 anni avvenne la vera iniziazione. La folgorazione. L'epifania che per sempre cambia la vita. Come fu con Ventimila Leghe sotto i mari per la lettura, Alice nel paese delle meraviglie di Lindsay Kemp segnò per sempre il mio amore preferenziale per un certo tipo di teatro.
Alice nel paese delle meraviglie è un testo letterario importante. Lo so. Tuttavia dovessi dire che è un testo che amo direi una falsità. Mi costringo a considerarlo ma non lo amo. E' così. Come il Piccolo principe e anche altre 'sacralità' con le quali faccio a cazzotti. Avendo letto da poco Alice, ero alquanto dubbioso. Uno spettacolo su quel testo, pensavo, mi avrebbe annoiato come il film della Disney.
Non andò così.
Bastò che il grande lampadario si spegnesse piano piano e che quel pulsare di luci magiche, di colori accennati si mettesse a evocare sul palco una storia danzata, mimata, trasfigurata, perché venissi trascinato via, letteralmente, dalla sedia.
Lindsay Kemp mi regalò, quella sera, una rivelazione. Mi svelò che si può raccontare in modi differenti, che il corpo è una narrazione in sé, che grazie a dio si può narrare senza parlare. Che le luci sono la vera essenza del teatro. E le ombre.
L'androgina, goffa eleganza di quel danzatore mimo che senza avere un corpo adeguato al suo compito, creava costantemente bellezza, mi mostrò altre strade che solo più tardi, molto più tardi, avrei davvero compreso. E alle quali sono oggi profondamente grato.
Il teatro di Lindsay Kemp (che avrei frequentato con Onnagata, Sogno di una notte di mezza estate) suggestionava e si muoveva con grazia e ironia fra estremi sconcertanti. Poteva persino apparire scomodo ma era sempre legittimo, anzi, legittimato. Il perimetro della scatola scenica legittimava la nudità dei danzatori, la promiscuità della sua visione orgiastica, trasformava tutto, anche il paradosso, in qualcosa di struggente e poetico.
Questo signore, che fu maestro anche di un'artista che amo profondamente, Kate Bush, se ne è andato. Tutto nella sua vita, dalla visione poetica alla sua dichiarata omosessualità che tanto aveva motivato le sue scelte artistiche, lo rendono un maestro, un faro.
Abbiamo bisogno di fari.
Quando uno di essi si spinge, urge affrettare le onoranze di rito e trovare un modo per riattivarne la luce dentro tutti coloro che lo hanno amato. Allora quel faro non muore e rivive nei così detti seguaci, discepoli, amanti.
Mia nonna Modesta divenne ceca dieci anni fa. Fu allora che le mie nonne smisero di andare a teatro. E così iniziò la loro vecchiaia che è stata un declino inesorabile. Modesta è morta questo inverno, a 95 anni. Laura è prigioniera di un alzheimer che le impedisce di vedere il mondo come è, la spinge in qualcosa di confuso e distante nel quale vede cose che non vedo. Un teatro sì, ma un teatro che non va bene, che non è oneste e che fa soffrire.
Ma la luce di Kemp illumina ancora sia l'una che l'altra. Mi tengo stretto a quel ricordo, oggi che anche io faccio teatro con splendidi amici. Quando nelle nostre azioni sceniche compare la danza, o la luce si accende ad evocare qualcosa, oppure sotto o sopra dei teli diamo vita alla trasfigurazione di un oggetto in qualcosa d'altro, io sento vibrare i miei 12, sfigatissimi anni, e rido: sono illuminato da un maestro e fra il pubblico, lo so, ci sono le mie due potentissime nonne che ridono felici, con me.
Buon teatro, buon viaggio mister Kemp.
Grazie

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