mercoledì 22 ottobre 2014

Attenzione agli aggettivi sostantivati. Possono nuocere.

Riflettere sulla lingua è una deformazione professionale per me. Cercare di capire i meccanismi profondi e di superficie mi aiuta a collocarmi nel cuore di un epicentro che irraggia molteplici rami di senso ovunque, in ogni direzione. Ragionare sulla lingua porta a capire le sedimentazioni della storia, l'importanza del ragionamento e della logica, la non casualità dei perché, gli scopi e gli effetti della comunicazione (sia essa buona o cattiva), le barriere terribili che le lingue erigono fra gli uomini (anche all'interno di una stessa lingua condivisa), i pericoli nascosti e le potenzialità inespresse. Insomma, la lingua, ogni lingua, è un universo complesso, disseminato di costellazioni. E vi sono distanze negli orizzonti da essa sottaciuti, che possono persino spaventare per chi intenda percorrerla fino alle sue verità.
Bene.
Ragionavo in questi giorni, mentre guido andando a scuola o tornando dopo ore di lavoro coi bambini, sul rischio altissimo della sostantivazione dell'aggettivo, che è moda tutta attuale frutto di un diffuso, cattivo uso della lingua soprattutto in quella landa sconsolante, arida e ormai avariata che il giornalismo.
L'aggettivo, soprattutto quello qualificativo, esprime un valore aggiunto, denominato attributo, ad un soggetto o ad un complemento. Diciamo che si aggrappa ad un sostantivo come una malia, come un incantesimo. Su quel sostantivo l'aggettivo riversa un potere ancestrale e fortissimo, ne sposta il centro, il fulcro.
Se dico bambino, voi vedete qualcosa di generico. Al più pescate in voi un'immagine archetipica del bambino a voi più congeniale.
Ma come aggiungo al termine un aggettivo, ecco che tutto si addensa e si sposta altrove.
Dico bambino biondo, e voi subito restringete il campo degli archetipi visualizzando giovani teste color grano.
Simpatico bambino biondo, e saranno teste bionde e sguardi furbi o seducenti.
Bambino infelice: l'immaginario andrà ancora lontano.
Bambino marocchino: e di nuovo archetipi e stereotipi faranno a gara per salire dai vostri abissi interiori per disegnare un'immagine.
Bene.
Non che io sia amante della genericità. Anzi. Mi si critica spesso perché nel mio scrivere io abbondo di aggettivazioni. Le amo, ne ho bisogno perché penso che aiutino a circoscrivere e rendano le frasi dense di significati e di direzioni. Però, appunto, io sostengo l'aggettivo in sé sapendo quale insidia nasconda. Attingo con rispetto e cautela al suo antico potere che per gli Egizi, ad esempio, fu appannaggio del magico Toth, dio dalla testa di Ibis incaricato di registrare la complessa cerimonia di trapasso delle anime. A ciascuna egli affidava un aggettivo.
Legava la magica parola astratta ad un sostantivo concreto.
Al corpo regalava una sfumatura dell'anima, buona o cattiva.
Bene.
Cosa facciamo oggi?
Una pessima cosa. Per economia e per rafforzare i pregiudizi che tanto pullulano come la muffa nei tempi epocali di decadenza e tensione come quelli attuali, ecco che togliamo i sostantivi e lasciamo che le pericolose parole antiche, gli aggettivi, galleggino da sole prendendosi tutto, mangiandosi il senso e sovvertendo la logica.
Per cui se una persona di origini albanesi, una persona albanese dunque, in stato di ubriachezza al volante, travolge ed uccide qualcuno, noi non diciamo questo bensì riportiamo che 'Un albanese ha ucciso qualcuno'. Voi capite subito che qualcosa non va. Non va perché la sostantivazione dell'aggettivo, come una calcificazione ossea, ha prodotto un'anomalia. La vaghezza insita nel sostantivo 'persona' scompare. L'aggettivo, però, anziché circoscrivere, fa propria quella vaghezza e, per cortocircuito, la muta in genericità.
Pericolosa genericità.
Gli albanesi uccidono in stato di ubriachezza.
Chi sono gli albanesi? I rumeni? Gli africani?
Queste generiche masse di aggettivi che hanno perso i corpi solidi seppur indefiniti a cui appartenevano? Perché vedete, io credo così che si perda il senso della solidità. Che la nostra lingua diventi debole di senso e ed invece cattiva come lama che taglia.
Si potrebbero fare molti casi, anche legati alla scuola. I bambini marocchini divengono spesso marocchini. Si possono talora udire insegnanti che dicono: 'Che ci vuoi fare, il mio marocchino non parla bene l'italiano è arrivato solo un anno fa.'
Il mio marocchino significa il mio alunno marocchino.
Che significa il bambino di origini marocchine che si trova nella mia classe.
Ma se omettiamo il sostantivo, ecco che di lui rimane solo il pericoloso generico addensato di poca conoscenza e pregiudizio che alberga su quel termine.
Non conta che sia bambino, che sia parte di un sistema (elementi questi che lo accomunano agli altri nel generico ma importante insieme spalancato dal sostantivo), conta solo l'attributo che l'aggettivo gli dona caricato della genericità dovuta alla mancanza del nome a cui si riferisce.
Così vorrei sentire dire le donne e gli uomini omosessuali e non gli omosessuali; vorrei sentire dire le persone tossicodipendenti, le donne casalinghe, le persone anziane, gli uomini separati, le persone disabili, i bambini dislessici, le persone extracomunitarie e così via...
Dovremmo dirlo al cattivo giornalismo, dovremmo fermare le discussioni populistiche, il chiacchierare tanto per farlo che non nuoce a chi lo pratica ma che è letale per chi ne è vittima.
Vi prego: unite sempre agli aggettivi il loro sostantivo.
Non concedete a queste belle o terribili parole magiche la libertà che un dio antico, dalla testa di Ibis, seppe giustamente imprigionare per contenere il loro sconfinato, dirompente potere.




Nessun commento:

Posta un commento