venerdì 1 gennaio 2016

Il futuro e il destino non sono la stessa cosa. Postilla per il 2016.



Eccomi, a quasi un anno dal mio ultimo, pigrissimo post. Tra gli impegni che mi sono prefissato per il 2016 c'è anche quello di tornare a curare questo blog. Manterrò la promessa? Lo spero.

Bene.

Sul nascere di questo nuovo anno, la mia testa ondivaga è approdata ad un'isola di pensieri in tema con il momento attuale, ovvero il transito dell'anno. Si tratta di un trapasso percepito da sempre come crogiolo denso di energie sotterranee. I Romani, non a caso, sigillarono questa soglia, ianua, con l'immagine del Dio che dà nome al primo mese, Giano, dio bifronte che con uno dei suoi due volti guarda indietro a ciò che fu e con l'altro si volge propizio al domani. Ecco: vorrei riflettere con voi, in breve, su questo concetto enorme eppure sfuggente che è il 'domani'.




Sì, perché in un simile contenitore semantico ricade una pluralità di concetti che utilizziamo spesso, forse non sempre nel modo più circostanziato. Due, soprattutto, sono quelli che mi piace accogliere: futuro e destino.

Il futuro è una sfera che la grammatica attribuisce al mondo dei verbi, spazio enorme e complesso, dove si distingue con incredibile perizia (soprattutto nella nostra lingua più che in altro) il livello dell'avvenuto, del ciò che avviene, del possibile, del perdurante, del probabile, del condizionato e, venendo a noi, di ciò che accadrà.

Proprio la grammatica italiana viene in sostegno, preziosa come sempre ( e del resto lo sapete, è uno dei miei grandissimi amori), a connotare il futuro secondo ciò che è. Ovvero ciò che accadrà. Sì, perché nella nostra lingua il futuro si esprime nel contenitore rassicurante del modo indicativo ovvero quel settore a cui competono i verbi della certezza. Non è un caso che in questo condominio formato da ben otto appartamenti, ben cinque siano destinati alla sfera temporale del passato. Nulla è più certo di ciò che è stato (e gli storici avrebbero da obiettare ma i logici no).

Un solo appartamento spetta al tempo presente, la cui evidenza si manifesta nel momento attuale e subito si spinge nell'immediatezza del trascorso recente (il passato prossimo, il tempo, come dico io ai bambini, che ci accarezza le spalle).

Due appartamenti spettano, invece, al futuro. Non è poco. C'è più spazio di certezza per lui che non per il presente! Perché? Intanto diciamo che, nella nostra lingua, se io dico 'domani verrò da te' io esprimo la certezza che domani sarà compiuta l'azione del venire da te. Si potrà obiettare che fra ora e domani può intercorrere qualcosa che vanifichi il mio proposito ma la lingua italiana ha pensato anche a questo. Se dico 'io verrò', esprimo determinazione affinché ciò avvenga. Se, invece, desidero mettere le causali, allora dobbiamo entrare in altri edifici modali ed ecco che congiuntivo e condizionale si sostituiscono all'indicativo. Via le certezze, ecco i se, le ipotesi, i ma, le architetture mentali... mi spiego:

1)'Verrei da te, se non fossi malato',
2)'Qualora non accadano intoppi, verrò da te'.

Nel secondo caso il futuro è minacciato dal congiuntivo' ma il concetto è diverso dal primo esempio.

1) Se dico 'Verrei da te', esprimo l'impossibilità a venire.

2) Se dico 'Verrò da te', manifesto la determinazione a venire, a fare di tutto a patto che non accada nulla che mi impedisca di realizzare la mia volontà.

Purtroppo nell'appiattimento linguistico corrente, da molto ormai accettiamo anche forme del tipo 'se non accadranno intoppi, verrò da te'. Il che non è concettualmente sbagliato purché si ribadisca che anche in questo caso il futuro esprime certezza. La suddetta frase infatti si traduce in: se ci sarà certezza che non accadano intoppi, sarà certo che vengo da te. Sarebbe meglio dire, per la legge dell'anteriorità, 'Se non saranno accaduti intoppi, verrò da te' ma ad oggi il così detto futuro anteriore è ormai quasi scomparso il che, ahinoi, significa aver rimosso una sfumatura essenziale. Ma di questo ulteriore sfaldamento non voglio parlare. Voglio rimanere in tema.



Mi chiederete voi: che c'entra tutto questo discorso farraginoso con l'anno nuovo?

C'entra eccome. Il futuro esprime se non una certezza, una determinazione. Non ammette l'insicurezza ambigua del congiuntivo (qualora venissi...) e nemmeno il senso tentennante e non conclusivo del condizionale (verrei se...). Il futuro ci dice che le cose accadranno. Perché tra due secondi, cinque minuti, domani, fra 10 anni, accadranno delle cose. Ed io posso stabilire che farò in modo che qualcosa che ci riguarda sia fra quelle.

Se io dico 'verrò', significa che cercherò di farlo ad ogni costo.
Ecco. Mi fermo qui al momento sul futuro.



Ora introduco il concetto di destino.

Perché?
Perché lo confondiamo col futuro e son due cose diverse. Il destino è cosa filosofica, per alcuni religiosa, per altri magica. E' cosa che si proietta nel futuro come se già vi abitasse, come se ci aspettasse da sempre quale mostro o quale giardino di delizie che altri hanno predisposti per noi da tempo immemore.

Il destino è un immaginario disegno precostituito, uno scenario già esistente che dovrebbe accoglierci, circondare il sentiero accidentato delle nostre vite quasi che questo percorso sia già programmato. Su di esso, sul destino, un po' come pensavano gli antichi Greci che pure, grazie ai loro eroi, provavano a controbatterlo, non si può fare alcunché. Le persone che credono nel destino, che vi si abbandonano (anzi, che credono di abbandonarvisi), si chiamano fataliste. L'aggettivo deriva dal greco fato che - appunto - indica l'imperscrutabile disegno (divino?) preconfezionato per ognuno. Le Moire, le tre dee che tessevano e recidevano la vita di ciascuna creatura, erano dette anche Fate. Le fate, poi son diventate altro: creature magiche, che interferiscono mutando, appunto, il destino degli eroi delle fiabe.

   


Voi capite, dunque, che se il futuro è cosa concreta, il destino viceversa è cosa magica, irrazionale, che ha a che fare più colle paure dell'oltre e dunque con le religioni ( o con la fede, forse).

Destino e futuro son dunque aspetti legati ad un campo semantico comune eppure diversissimi.

Il futuro si costruisce, dipende dalla nostra volontà, dalla nostra determinazione. Potranno accadere eventi che impediscano l'attuazione di quella volontà, ma essa, alla sua radice, non verrà meno.

Al contrario, il destino è un concetto indeterminato che esce dalla razionalità e ci spinge ad un atteggiamento passivo. Fidarsene (nel senso di affidarsi a lui) significa costruire un presente di indecisione, ambiguità e rassegnazione. Nel solido edificio del modo indicativo, non c'è spazio per lui. Gli competono le incerte traiettorie dell'ignoto e dell'illogico.

Chi ha cambiato il mondo, in bene o in male, chi ha inciso nella storia o più semplicemente nella propria esistenza, chi ha spinto ai cambiamenti, chi ha lottato per rivoluzionare lo stato delle cose, ebbene, ha creduto nel futuro e così lo ha costruito. Ha fatto sì che avvenisse ciò che voleva che accadesse. E se le avversità lo hanno ostacolato e magari frustrato, ebbene di quella volontà qualcosa si è salvato proiettandosi in avanti. In avanti ci spinge lei, la volontà.

Chi invece è fatalista, si affida al destino. E così produce null'altro che rassegnazione e ristagno. Affida ad altri il compito di mutare e permane nel suo stato. Che è uno stato di ambiguità. Non vi è tensione, proiezione attiva verso uno scenario che è tutto da costruire.

Il futuro non esiste. Accadrà. Saremo noi ad agirlo nelle intenzioni fattive che stabiliamo ora. Nessun futuro accade da sé. Esistono eventi concreti, sanciti nei complessi stati del modo indicativo, che lo rendono concreto (seppur ancora non esistente) quanto il passato e il presente (che invece sono esistiti e lasciano tracce documentabili).

Ora più che mai abbiamo bisogno di ricostruire per noi e soprattutto per i giovani, la voglia di progettare il futuro. Si rende imperativo scacciare il senso incombente e irrazionale di un destino soprannazionale verso il quale non si può far altro che subire. Rimettere il concetto di futuro al centro significa riconsegnare ad ogni individuo il suo posto nell'indicativo, affinché possa dire: io farò! Significa scacciare un fatalistico senso della predestinazione per riappropriarsi di un razionale, necessario, filosofico e - direi - europeo (nella migliore accezione) approccio alla vita.
Che ne dite?
Rimettiamoci a costruire il futuro.
Io ci proverò.










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