lunedì 30 settembre 2013

Un'idea della politica utopistica?

l fatto che noi italiani non ci stiamo minimamente preoccupando per la crisi di governo può dire una serie di cose, non compatibili l'una con l'altra:
1 che siamo i soliti superficiali
2 che siamo talmente immersi in una crisi perdurante, anche di tipo
governativo, che non percepiamo alcuna modifica sostanziale tra prima
e dopo crisi del governo.
3 che abbiamo priorità impellenti, tipo sopravvivere, per cui ormai
abbiamo tirato i remi in barca consapevoli che il Paese e il suo Governo
sono due entità distinte.
4 che solo una guerra, una catastrofe, una pericolosa scintilla possa
radere al suolo questo stato incivile di cose.
5 che siamo più profondi di quanto si pensi, che diffidiamo dei movimenti e
del concetto banale di 'democrazia partecipat(iv)a' ma che al contempo
non sappiamo come credere nella 'democrazia rappresentativa' visto che
non ci rappresenta per nulla.
6 abbiamo capito che nemmeno il potente strumento della manifestazione
di piazza sortisce più alcun effetto dal momento che quelli contro cui
protestiamo sono i primi a dire: bravi, fate bene a protestare. E'
democratico protestare.... e con questa retorica della democrazia ormai
sciorinata in ogni dove e senza cognizione, i politici sono riusciti nella
titanica impresa di demolire il senso altissimo e spinoso di quel concetto.
7 ci appelliamo alLa Costituzione così come ci si appella alla Bibbia.
Affermiamo il vero nel dire che è un testo luminoso, combattiamo per
difenderla ma poi? Non siamo capaci di tradurla nel quotidiano,
modernizzandone le istanze scritte più di 60 anni fa. Come se essa
valesse solo per i politici. Predicando bene e razzolando male. Proprio
come la Bibbia appunto.
8 abbiamo bisogno dei rottamatori, dei guru, di quelli che ci dicono che
'bisogna agire e non parlare'. E nessuno dice che prima di tutto bisogna
'pensare'. Perché agire senza pensare è come parlare senza fare. E
quando dico pensare dico: riflettere, meditare, analizzare, compenetrare,
assorbire in profondità, avere lungimiranza.

Io voglio un paese guidato da una classe intellettuale fatta di teste etiche e pensanti. Che non accontenti 'la gente', orribile concetto quello di 'gente'. Così si va nel populismo, nella demagogia facile, e su quel fronte abbiamo già ampiamente dato. Necessitiamo di una cosa alta, di una istituzione illuminante. E nemmeno abbiamo bisogno di una politica che nasca dai movimenti di base poiché questi servono a punzecchiarla la politica, e fanno benissimo, servono a metterla di fronte allo specchio perché si ravveda se non si attiene ai programmi, ma non devono avere pretese di sostituirsi a chi deve guidare. Perché una classe dirigenziale dovrebbe avere competenze, specificità e qualifiche tali da non rendersi intollerabile e disgustosa a tal punto da farci pensare di poterci sostituire ad essa.
La vera politica, che io vorrei, è quella che si fa carico dei bisogni primari della cittadinanza tutta, ovvero la sanità per tutti, l'istruzione per tutti, i diritti sacrosanti del lavoro. Che garantisca i diritti civili in senso moderno, senza alcun retaggio religioso ma mossa da una percezione umanistica e inoppugnabile dell'essere umano e dell'ambiente come 'entità' di rispetto integrale. Punto. Di lì in poi si entra nel nulla, o nel dettaglio.
La politica, una volta presasi cura di questo, deve innalzare la cittadinanza, migliorarla, aprire le teste, indicare orizzonti nuovi e alti. Non deve, viceversa, ascoltare quell'informe borbottio qualunquista che chiamiamo 'gente' e agire di conseguenza. Per quella via, si è visto quali catastrofi, perché di catastrofi si tratta, siamo stati capaci di raggiungere.

Quest'anno leggerò ai miei alunni la Costituzione e farò in modo che capiscano che il primo luogo dove essa deve essere applicata è la nostra classe, il nostro paese, il nostro spazio vitale quotidiano. Solo quando saremo cresciuti nell'assorbimento forte e profondo di quel testo, torneremo ad avere il diritto (che tutti abbiamo perso, tutti!) di lamentarci o di ignorare anche questa ennesima crisi di governo.


mercoledì 25 settembre 2013

Memorie di un maestro precario: saluti, pigrizie, pronomi, parolacce e Paolo Uccello.

- Maestro, non mi hai salutato nemmeno stamani! -
- Ma veramente ti ho detto buongiorno, sei tu che non mi hai sentito. -
- Eh no, io sento tutto e non me lo hai detto. -
- Ma come? -
- Dimmelo, su, dimmi 'ciao' -
La guardo, minuscola come lo scorso anno, ma tenace e guerriera. Le sorrido:
- Ciao! -
Allora mi abbraccia forte e poi mi guarda seria:
- Domani non te lo scordare! -
Si allontana con le sue amiche.

- Maestro, quando si mangia? -
- Tra un po', ora concentrati. Stiamo facendo grammatica. -
- Ho fame. -
- Bene, analisi grammaticale di 'Ho fame' - Lo fisso severissimo.
- No, no, scusa, mi ero sbagliato. Anzi, non ho fame per nulla! -

- Allora, ripassiamo i pronomi personali. -
- Maestro, - alza la mano Distrattoconfuso, - NI dici a questo qua, - indicando un compagno molesto, - di stare zitto? -
..... pausa dolente del maestro.
Silenzio.
La classe mi guarda. Lui mi scruta e mi vede tentennare nel mio ruolo. Non capisce.
- Maestro? - mi invoca, vuole che prenda posizione sulla sua richiesta. Effettivamente Sfasatosensibile lo ha tormentato per più di dieci minuti.
- Va bene, - inizio, - NI dirò qualcosa. -
- Bravo. -
- Posso chiederTI una cosa? -
- Certo maestro, sono qui per TE. -
- Quel NI, cosa vorrebbe dire? -
- A lui, pronome personale no? Non si stavano ripassando? -
Sono molto soddisfatto.

- Maestro, quel bambino mi ha detto che sono una gran figlia di Puttana - piangendo.
- Oh, - esclamo contrito e imbarazzato, circondato dal carosello di colleghi e alunni della ricreazioni in giardino, - intervengo subito ma non occorre ripetere queste parole. -
- Ma se non te lo dicevo e che so.... ti venivo a dire: 'quel bambino mi ha detto una brutta parola', mi rispondevi che non era nulla di grave. Tanto ti conosco. -

- Maestro, quando noi saremo grandi tu sarai già morto! -
Aridaglie! Già lo scorso anno era saltata fuori questa cosa. Non potendo fare alcun tipo di scongiuro poiché sarebbe alquanto diseducativo, mi lancio sul professionale sconfinando nell'area di Giulia, la mia collega di scienze e matematica.
- Scusate, bambini, ma se io ho 38 anni e voi 10, quando voi avrete la mia età....-
- Oh mio dio no! - Esclama Provocatricecritica, - non iniziare anche te con i problemi ora! Va bene, va bene, non morirai, sei contento? -

Guardiamo intensamente la scena di San Giorgio e il drago di Paolo Uccello. Li ha incantati. Si susseguono, no anzi, si accavallano, le loro osservazioni, le opinioni, le letture.
- Maestro, - dice Altissimagentile, - questo quadro mi piace. Sembra di stare dentro una fiaba. -
- Hai proprio ragione, anche a me fa questo effetto. -
- Ci sono molti particolari, - aggiunge Provocatricecritica, - e le nuvole a destra fanno  paura, aumentano la paura! -
- E anche la grotta! - Aggiunge Pignoloridente, - mi fa un po' ansia! -
- Ma sulle ali del drago ci sono delle decorazioni - Esclama Biondinatenace.
- Sembra un pavone, il pittore ha voluto rendere bello tutto in questo quadro, anche il drago! - osserva Scrittriceloquace.
Ah, se Paolo Uccello avesse saputo quali occhi attenti e profondi avrebbero guardato il suo capolavoro! E se solo gli storici dell'arte, ogni tanto, ascoltassero i bambini!




lunedì 16 settembre 2013

Perché non amo il Piccolo Principe.

Stasera ho capito perché non amo il Piccolo Principe.
Perché è scritto con l'intento di insegnare, di dare messaggi. Quando incappo in un libro scritto programmaticamente per fare questo, anche se intriso di poesia, io sento puzza di presunzione. Sottrae alla casualità dell'incontro, dal quale si impara e si apprende inaspettatamente, l'aspetto più bello e importante: il caso, appunto.
Nel libro di Saint- Exupery tutto è stato pensato a priori, lo stereotipo abita sotto i personaggi dell'incontro e sovrasta la loro valenza simbolica. Ad ogni passo, l'autore sembra dire al giovane lettore: ecco, ora ti sto insegnando qualcosa sulla vita! Ecco, questa cosa così ben detta devi farla tua, ci devi cavar fuori una lezione.
Diffido degli scrittori dell'infanzia che sono convinti di essere così vicini ai bambini da potergli insegnare cose sul mondo....
Uno scrittore che scrive per i ragazzi, deve innanzi tutto pensare di essere lui il primo ad imparare qualcosa, consapevole del tragico evento che risiede nell'essere cresciuto, inesorabilmente. C'è una distanza incolmabile fra lui e quel regno inquietante che si chiama infanzia. Anche il moralistico Collodi, nel concepire quel capolavoro ambiguo e potente che è Pinocchio, era partito con l'intenzione di educare... ma qualcosa gli sfuggì di mano. Grazie a Dio. Pinocchio incappa nel male, inciampa, fa incontri, incontri luminosi e incontri terrificanti. Prova ad imparare ma non vi riesce sempre. Anzi, ricade nel proprio errore. Chi lavora coi bambini sa che questo è vero. Il suo viaggio ha realmente in sé la forza formante della casualità.
Nel mondo mieloso e programmato del Piccolo Principe, invece, noi adulti ci gongoliamo perché attendiamo ad ogni tappa cose che già sappiamo e che, se devo dirla tutta, non sono nemmeno così vere.


sabato 7 settembre 2013

Digiunare, perché?

Mi intristiscono i digiuni.
Sia che siano religiosi sia che siano simbolici. 
Nel primo caso, c'è da chiedersi perché mai un Dio che permette una guerra (perché o 'sto Dio ci ha dato la libertà o ce la fa gestire a singhiozzo secondo l'estro, il che andrebbe chiarito) dovrebbe poi ripensarci impietosito da alcuni fedeli che per un giorno non mangiano; nel secondo caso, mi sembra che sia di cattivo gusto che un buon borghese occidentale si conceda il lusso di non mangiare per un giorno per esprimere dissenso verso il 'silenzio dei potenti'. 
Quando sento dire che digiuniamo perché siamo contro la guerra in Siria (ed io lo sono, fermamente, si intenda), mi viene da accostare queste due immagini, e chiedere: non sarà che per lenire il fastidio della prima (delle immagini che, ahimè, sono tragica, insopportabile realtà), dimentichiamo la seconda (altrettanto terribile e atroce?). 

Forse dovremmo scendere in piazza e gridare, perché il silenzio sbagliato si abbatte con le grida e con l'agire. 
Non con una dieta giornaliera. 
Perdonatemi, ma sento questo. 
Se sbaglio, aiutatemi a capire.
E' bello sentire la fatica quando sai che va nella direzione giusta. Quando fai un lavoro che, nonostante le umiliazioni costanti e latenti del precariato, vale comunque la pena di quella fatica e di quelle umiliazioni. 
Ripartiamo, anche quest'anno, ma per me c'è un'emozione in più. La continuità.
Provo per la prima volta la sensazione confortante di essere nella stessa scuola, ritrovare colleghi stimati, relazioni già avviate e soprattutto i nostri 24 bolidi furenti, fiori del bel giardino misterioso che, almeno quest'anno, non ho dovuto abbandonare.
E' come sapere di partire per un nuovo viaggio con una ciurma conosciuta. Ma gli orizzonti si allargano e le terre da esplorare si fanno ancora più estese. 
Di nuovo in viaggio per mare, di nuovo in ascolto, di nuovo a coltivare. 
Bello, bello sentire questa magia. 
Questa voglia di iniziare. 
Questa voglia di primo giorno di scuola.

Questo bel dipinto di Bruegel sembra esprimere compiutamente il senso di quello che sento, ora. In primo piano la certezza di una terra sicura, dove arare diviene parte di una procedura conosciuta eppur sempre modellabile, mutevole. Un contadino coscienzioso sa che le stagioni si trasformano così come muta la terra e che il proprio bagaglio di conoscenza va al servizio di quei cambiamenti, ad essi si adegua senza imporsi. Seminare significa comprendere il cambiamento e saperlo rendere fecondo.
Da questa balza sicura si spalanca l'orizzonte di un nuovo viaggio: il vascello è pronto, manca solo di issare l'ancora. Isole, scogli, sole e nuvole tempestose. Questo è lo scenario che accoglie il nostos, il viaggio. Un'esperienza antica e necessaria. Per affrontarlo, in quella barca stiviamo ciò che si è seminato e raccolto. Lo portiamo con noi. Quello ci servirà a sopravvivere, a vivere, ad andare avanti. Si parte alla ricerca di nuovi semi, nuovi pigmenti e spezie da riportare. Perché la nostra stiva sia sempre ricca, in crescita, pronta ad accogliere.
E se l'orizzonte ci invita, noi andiamo. 
Senza paura. 
Ma con molta emozione.

giovedì 15 agosto 2013

Pittori da scoprire: l'audace dimenticato. Altobello Melone.


Guardate, vi prego, questo dipinto. Lo trovo di una bellezza sconcertante. Ci raggiunge dal primo Cinquecento come uno schiaffo, una testimonianza di verità tra le più belle e singolari di tutta la storia del ritratto.
Si tratta di un'opera nota come 'La coppia degli amanti', della quale il pittore ha redatto più di una versione. Questa è quella del Museo delle Belle Arti di Budapest.
L'artista per molti è poco noto. Il suo nome è rimasto celato nei meandri della storia ed è conosciuto soprattutto dagli studiosi. Si chiama Altobello Melone, nacque a Cremona negli ultimissimi anni del Quattrocento quando le innumerevoli civiltà artistiche italiane sembravano un galleggiante mosaico di vitalità e voglia di primeggiare in bellezza. Il nostro paese era un continuo scintillio di variazioni su temi e suggestioni che correvano freneticamente per tutta la penisola. L'Italia era allora un'idea e una sagoma geografica. Non poteva essere altro che questo poiché la sua superficie era frazionata di stati, satelliti e città in guerra o in aperta gara.
Altobello, nascendo a Cremona, fu apparentemente distante dai centri maggiori ma ne subì l'influenza senza venirne eccessivamente contaminato: questo lo rese colto ma spregiudicato, educato eppure libero di inventare. Da Milano lo raggiunse un certo naturalismo leonardesco proteso su sfocate lontananze e distese fatte d'acqua e corpuscoli aerei; a Brescia, ove lavorò con il grande Romanino, costruì una visione luminosa e piena, gustosamente curiosa dei dettagli del vivere quotidiano; da Venezia, l'arrogante Serenissima, assimilò un gusto carnale del colore e una sprezzante trascuratezza del disegno.
Guardate ora questo capolavoro: si capisce subito che il pittore è una mosca bianca nell'universo artistico di allora tutto proteso ad un ideale assoluto di bellezza aulica. Qua siamo di fronte ad un pittore anticlassico, che viene attratto dall'inconsueto, dagli aspetti meno convenzionali della vita. In questo fu aiutato dagli esempi di pittura tedesca e fiamminga che in quei tempi circolavano in Nord Italia. I due giovani, seppur in qualche modo vestiti d'eleganza, sembrano rampolli svitati, i meno preferiti, i secondo geniti poco considerati di qualche buona famiglia mercantile. Hanno fatto appena l'amore o lo faranno entro poco. Ma non gioiosamente, saranno come offuscati dalle loro inquietudini, magari da una qualche droga consumata assieme, in una intimità che profuma di fuga, disperata ma orgogliosa, dalla durezza della vita. Questi due giovani non anticipano forse intere generazioni di veri o presunti dandy, di poeti maledetti, di bohemien scapigliati? Possiamo spingerli fino ai recenti decenni delle contestazioni e li troveremmo paurosamente attuali. Bellissime le parole di Mina Gregori quando di Altobello Melone, a proposito di questo dipinto, sottolinea:

"l'impasto inestricabile di miseria e nobiltà che s'impersonano in questo malinconico Ruzzante e nella sua compagna."

Questo tipo di ritratti mi colpisce sempre perché ha il potere di toccare in modo commuovente i sottotesti della vita, i 'non detti' che a volte sono ciò che dona massima consistenza all'esistenza umana.
In quel sapiente mixage di malinconia e fiera autodeterminazione, nel consapevole sentirsi diversi nel destino ma anche nell'abbandono ad un abisso di rischi, i due amanti giovani del dipinto ungherese sembrano chiedere diritto di asilo oppure, invece, sdegnano il nostro guardarli, certi che nell'assunto borghese che ci connota saremo incapaci di comprenderli. 
La grigia consistenza di tenebra che li avvolge li consegna così alla storia, belli e dannati, non inquadrabili, fuori dalle facili etichette. Io li amo profondamente questi due amanti giovani e sfortunati, la loro umanità sfocata mi appartiene, mi pungola come una sofferenza sottile. 
Per questo penso che all'arte occorrano sempre menti come quella di Altobello Melone, divergenti e capaci di andare oltre al canone per cogliere la vera vita. Terribile e commuovente.

lunedì 12 agosto 2013

La maledizione di Horton

Guardava nel buio, attraverso quella coltre caduta come una maledizione sul suo orizzonte. Metteva a fuoco uno
spiraglio che non concedeva altro che vaghe idee. La distesa piatta che chiamiamo vecchiaia, era arrivata spietatamente a reclamare la sua monotonia. Sottraendole quel mezzo che le era stato più caro d'ogni altro, la vista. Lei che aveva letto, viaggiato leggendo, imparato leggendo. Lei che attraverso l'occhio, tramite il gesto consumato della lettura, aveva allenato la sua testa meravigliosa rendendola eternamente giovane e sveglia. Ora, quella giovinezza mentale le rendeva ancor più odioso dover vagare a tentoni, spaventosamente sospesa sul nulla, in quella landa piatta di bruma che si chiama vecchiaia. In essa, lei si diceva, anche raccogliere i frutti di ciò che si è seminato può diventare amarissimo.

sabato 10 agosto 2013

Il giardino incantato di Dürer.

Proprio oggi sono incappato in questa bellissima illustrazione. Si tratta di un acquarello del disegnatore inglese William Callow che nel corso dell'XIX secolo ritrasse l'antica casa del pittore Dürer a Norimberga.


In quella città aveva vissuto, infatti, il grande artista tedesco del Rinascimento. E in quella città era sempre ritornato dopo i suoi importanti viaggi compiuti soprattutto in Italia, dove gli artisti nordici venivano per imparare i segreti e le tecniche della grande arte.
L'acquarello di Callow ci presenta il grande edificio simile ad un maniero fiabesco, quasi miyazakiano, inserito in un contesto urbano vivace, di legno e intonaco, popolo brulicante e carri gonfi di merce. Il tutto stagliato contro un cielo tinto con quell'inconfondibile azzurro che solo il XIX secolo è riuscito a creare e che io, appunto, chiamo 'Celeste Ottocento'.
Ora, perdendomi nei minuziosi dettagli di questa illustrazione di viaggio, mi immaginavo la vita là in quella casa gigantesca, già ipotizzavo un ventaglio di storie possibili. Sì, perché questo genere di preziosi disegni hanno quel potere tutto particolare di darci l'avvio per una, dieci, cento narrazioni.
Proprio nel riflettere sulla tecnica dell'acquarello, ecco che dalla casa di Dürer son passato a Dürer stesso. Ho salito le scale dietro i graticci, mi sono immerso nelle penombre. Per le vie i carri si sono azzittiti e dall'Ottocento di Callow son rifluito nel fangoso e rivoltoso mondo della Germania di primissimo Cinquecento
Eccolo là, nella sua stanza di lavoro. Dürer. Egli era bellissimo. I lunghi capelli ben curati e impomatati per mantenere i boccoli piombati. La barba curata coi baffi intorno alla bocca carnosa.

Dürer era un narciso seppur animato da un moralismo inquieto che sapeva cogliere di sé, oltre quella bella superficie, i lati d'ombra, le malinconie, l'essenza di una vita creativa incentrata sulla solitudine. Questo ossimoro fra autocompiacimento e percezione dolente dell'esistenza, trapela in un meraviglioso disegno in cui l'artista si ritrae nudo.
L'omaggio evidente alla statuaria classica e al primo Michelangelo, si compenetra con una sorta di cupezza emotiva. Quest'uomo sapeva di essere bello e sapeva di essere profondamente tormentato.
Fu un eccelso pittore. Viaggiò molto assorbendo spunti molteplici. Si dedicò all'acquarello principalmente per due motivi: appuntare dettagli di viaggio (frammenti di paesaggi, particolari di elementi naturali o rurali) oppure studiare la natura delle cose. 
E' quest'ultimo aspetto che mi affascina di più. Scorrendo i meravigliosi disegni acquarellati dei taccuini Düreriani, si entra in un giardino di meraviglie dove accanto a zolle erbose descritte con verità commuovente, appaiono leprotti dal pelo screziato....


Dürer è stato paragonato al suo contemporaneo Leonardo per questo amore per i dati naturalistici. Io credo che egli superò Leonardo nella precisione ottica con cui seppe cogliere l'intima verità delle cose da lui osservate. Pur non avendo il piglio dello scienziato, egli procedeva in modo rigoroso. Le sue possono a tutti gli effetti essere considerate tavole botaniche e zoologiche. 
Si guardino il meraviglioso Granchio o il Cervo Volante. Alla realtà tangibile della loro natura si unisce uno sguardo complice, quello di un pittore che ama il soggetto trattato.

 


L'arte di Dürer si popola così di animali e piante vivi, capaci di restituirci il senso di una natura palpitante che viene indagata, scandagliata ma sempre amata. Essa è la fonte primaria di ispirazione. L'arte non può che imitarla.

 

Dürer coglie gli animali nelle loro azioni abituali. Ecco dunque scoiattoli che rosicchiano delle ghiande, un porcospino dall'aria assonnata, un piccolo cinghiale che sembra impaziente di scappare via, un barbagianni con l'espressione stralunata.


Si tratta di un patrimonio davvero singolare e prezioso che ci restituisce l'immagine di un nuovo mondo, quello che apre la strada al tempo che chiamiamo 'epoca moderna'. 
In quella casa splendidamente regalataci dal tratto modernissimo di Callow, tra le mille storie possibili, c'è una narrazione fatta di occhi e pennelli, di osservazione e sentimento, di animali.
Un giardino incantato, ennesima grazia concessa a noi dall'estro dei grandi artisti.

venerdì 2 agosto 2013

La condanna di Berlusconi. Per un'Italia responsabile



E ora, noi Italiani, saremo capaci di cambiare il corso delle cose?

O ci accontenteremo solo di una meritatissima condanna?

Saremo finalmente capaci di andare oltre alla beatificazione dell'evento o ne rimarremo, come altre volte, prigionieri?

Solo se accetteremo con dolore, come collettivo, come società, come grande civiltà quale siamo potenzialmente, solo se accetteremo, dicevo, quella condanna come una condanna a tutti noi, avremo la possibilità di cambiare davvero le cose. Altrimenti, se ci gongoleremo nel decantare il 'cattivo punito' senza assunzione alcuna di responsabilità, avremo fatto l'ennesimo buco nell'acqua.

Perché la sua odiosa presenza ventennale è colpa non solo di chi gli ha creduto, di chi lo ha sostenuto, protetto, difeso, idolatrato. E' anche di chi lo ha irriso, di chi dai salotti ne ha sbeffeggiato la grottesca bassezza, di chi lo ha prima sottovalutato e poi ipervalutato, di chi - mascherandosi da oppositore - ne ha assunto, come spugna fetida, il pericoloso stile d'azione e di pensiero.




Oggi siamo stati tutti condannati ed è un gran bene.




E' uno schiaffo che ci deve prima umiliare e poi spingere alla costruzione di una nuova, importante comunità civile. Nella direzione di uno stato che non abbiamo forse mai avuto o che abbiamo perduto: lo stato morale, lo stato etico, lo Stato.




Un bacio a te, Italia. Che non sei la mia patria perché non credo alle Patrie. Ma che sei la bella e martoriata terra in cui il destino ha deciso che nascessi.

Nella vergogna, oggi ti amo un po' di più.

martedì 16 luglio 2013

Occupare deve essere nobilitante. Il caso deludente del Teatro Rossi a Pisa.






Occupare.

Significa prendere possesso di uno spazio. L'occupazione è una forma di protesta, anzi, no, di rivendicazione che in massima parte è legittima. Se ci sono spazi che gli enti lasciano andare in decadenza, chi reclama un proprio luogo per vivere, comunicare, aggregarsi può appropriarsi di quel luogo, provare a mantenerlo in vita, sottrarlo all'incuria e - contemporaneamente - riconquistarlo ad una funzione. Nella cultura di sinistra in cui io stesso sono cresciuto, l'occupazione è un'azione politica e sociale che tendenzialmente ispira simpatia e richiama approvazione. Io stesso ho seguito con passione le vicende del Teatro Della Valle a Roma e, per quel che leggo, approvo ciò che un giovane collettivo lucchese ha fatto con il dismesso campo ricreativo delle Madonne Bianche a Lucca. Ora però, vorrei fare un puntualizzazione.

L'altra sera sono andato a Pisa dove da mesi è in atto un'azione di occupazione presso il Teatro Rossi, splendido edificio che gli enti pisani stanno lasciando andare in malora.

Il progetto Teatro Rossi Autogestito mi aveva incuriosito da tempo, sicché - immaginandomi una situazione simile a quella romana - sono andato a vedere uno spettacolo promosso dal quel collettivo.

Non mi piace. Così proprio non mi piace. Se si occupa un posto per mantenerlo in vita, lo si deve far vivere e lo si deve curare. Non trasformarlo in un puzzolente, trascurato baraccone che accoglie male, anzi malissimo il visitatore, lo spettatore, anzi, dirò, il sostenitore. Al di là dello spettacolo molto brutto (ma un luogo deputato alla creatività deve scommettere e quindi può anche ospitare opere che risultino non propriamente degne), mi hanno intristito le seguenti cose.- la sciattezza fricchettona(che a Pisa, ahimè, sembra aver dimora sempre più spesso): lo spettacolo doveva iniziare alle 7.30 ed è iniziato alle 20 e 20. Cioè cinquanta minuti dopo.
- i responsabili non davano indicazioni utili e precise salvo quella che l'entrata sarebbe costata 3 euro (che diamo ben volentieri per la causa...ma ora li darei un po' meno)
- La prima parte dello spettacolo si svolgeva nel foyer. Perchè nessuno aveva ripulito l'ambiente, lo aveva ordinato, sgomberato di accatatamenti vari, pulendo i bagni maleodoranti?
- Nella platea del teatro aleggiava un forte odore di urina, non felina. Anzi umana.
- Il pubblico era formato, in tutto, da sole otto persone me compreso. Nessuno dei membri del collettivo era presente. Sono uscito a metà spettacolo, onestamente respinto da ciò che vedevo, ed ho trovato seduti per terra sul marciapiede di fronte al teatro, a fumare, i cinque o sei esponenti del comitato dell'occupazione. Tristezza e rabbia: perché non erano dentro? Che senso ha promuovere e voler far rinascere un progetto se poi non si caldeggia e si sostiene ciò che in esso si fa?
Se questa è l'occupazione, io dico di no.
Dico che allora preferisco che a distruggere il meraviglioso gioiello pisano sia l'incuria del comune e non la sciattezza di giovani nei quali ho creduto e che mi hanno deluso. Questo, se permettete, è un lusso che concedo solo ai politici di questo maledetto paese.

Firmato, un incazzatissimo, acidissimo, sempre più corrosivo uomo di sinistra (colto, per giunta).

lunedì 15 luglio 2013

Tanti auguri signor Rembrandt.


Oggi si festeggia il compleanno di Rembrandt. Chiunque abbia incontrato realmente l'arte di questo pittore, sa che si tratta d'un fuoriclasse di prim'ordine. Gironzolando per mostre e musei avevo avuto modo di confermare il mio amore per l'artista olandese ma la grande mostra berlinese del 2006 mi regalò emozioni talmente profonde che da allora considero Rembrandt uno dei miei cinque pittori preferiti in assoluto. 
Rembrandt visse in un'epoca, il Seicento, in cui l'intera Europa si dedicò allo studio delle relazioni conflittuali - eppur feconde - fra ombra e luce. I più grandi pittori del secolo incentrarono le proprie ricerche su questo ossimoro che ha un connotato indubbiamente naturalistico ma anche un alto potenziale simbolico; in esso si filtrano la passione per la verità delle cose che la Nuova Scienza andava coraggiosamente propugnando e al contempo i misteri dell'inesplicabile, cercando, tramite essi, un palpabile segno del divino nel contingente. Così aprì la strada Caravaggio e lo seguirono i maestri: Velasquez in Sapgna, De la Tour in Francia, il Guercino in Italia. In Olanda, Rembrandt, perseguì la via senza esserne a conoscenza. In questo risiede la sua grandezza e unicità. Egli non proviene dal nitore feroce di Caravaggio, non cerca la naturalezza delle cose attraverso il dato reale. Egli persegue la costruzione dell'immagine entro una sfocatura dorata, dove luce significa polvere stellare e tenebra vuol dire assenza. Le creature e gli ambienti dell'artista galleggiano sospesi fuori dai contesti. Il buio che le attornia sottrae sostanza, esprime un nulla spaventoso e carico di mistero. Nel buio di Caravaggio intuisci la creazione dei corpi in scena: quello del pittore italiano è un procedimento teatrale, razionale. Nell'oscurità di Rembrandt ci sono solo corpuscoli di vuoto, fuliggine, assenza di materia. 



Ne emerge un senso drammatico ma non teatrale, bensì lirico, della pittura. La verità, la naturalezza si raggiungono per l'intensità emotiva. I ritratti vibrano, quasi sempre malinconicamente. I personaggi sono in bilico su un mondo che ha una percezione angosciosa del trascorrere del tempo. Semplici scintillii di luce opaca svelano antichi interni domestici, dove anche i profeti assumono umili identità, contorni sfocati dall'incertezza. 



L'occhio del pittore è umano, ama i suoi soggetti. Li consola ma non può che restituirci un'idea dolente, quella di una umanità che non sa dove sta andando. Confusa e in attesa. Ma anche progressista, decisa a slanciarsi a volte verso quel futuro da debellare.



L'amore per Saskia, compagna di una vita morta prematuramente, si riverbera su ritratti meravigliosi.



 L'intimità che lo lega alla donna, l'affettuosa carezza che le riserba nel modellarne le carni morbide e i velluti delle vesti, è così moderna ed attuale che ci racconta un modo a noi ben noto di vivere assieme, condividere le ore, affrontare quell'incertezza che l'epoca, anche la nostra, distende sul futuro come una gigantesca palpebra.



giovedì 11 luglio 2013

Poesia della notte estiva

Il rettangolo stellato
s'apre su lidi di suono.
Nere risacche di rane,
echi di lucciole bianche.

Cresce l'erba e riposa
sotto azzurre pianure.
Passi di danze lontane,
calano corolle stanche.

Passi di oscuro cacciare,
agguato, denso velluto.
Transiti di stelle vane,
l'eco risponde: tu, anche.





giovedì 4 luglio 2013

La bellezza degli uomini.


Il fascino del ritratto, come peculiare genere artistico, in genere ci raggiunge tardivamente. Da adulti. Non è difficile comprendere il perché di questo fatto. Si deve avere un po' di vita alle spalle per capire a fondo questi documenti magnetici. L'esperienza ci aiuta ad andare oltre il mero virtuosismo mimetico. Ai bambini e ai giovani piacciono i ritratti che sono più simili al vero, naturalistici, fotografici. A noi adulti, invece, piacciono quelli in cui, oltre la tecnica illusionistica, ritroviamo l'arguzia, la testa pensante, lo sguardo che rivela. Insomma: il ritratto interiore.
Tra tutte le tipologie di dipinto, il ritratto è quello che crea maggior tensione ed imbarazzo nell'osservatore attento. A volte ci trasforma in voyeur, altre ci costringe a restituire a quell'immagine posta oltre la finestra della cornice, un'emozione reale: interesse, affetto, astio o attrazione, commozione o complicità. I grandi ritratti ci chiamano ad una partecipazione che travalica le epoche e ci riconnette non solo con individui ormai scomparsi e, molto spesso, sconosciuti, ma con tutto il senso profondo di una civiltà al cui fluire apparteniamo. Un grande ritratto è come un'opera di Shakespeare. Può raggiungerti da date antichissime eppure svelarti l'animo dell'uomo così come è, realmente, immutabile nello scorrere del tempo. Il grande ritratto, così come la grande tragedia, ci rivela chi siamo. La finestra diventa uno specchio e ciò che vedi non è altro che la tua anima vestita d'abiti d'altre epoche.
Questo che vedete è un gradissimo ritratto. Risale all'incirca agli anni Venti del Cinquecento, l'epoca truce e cupa in cui il Mondo comprese d'essere d'una sostanza e d'una forma ben diverse da quelle che si era sempre supposto. E' un'epoca fatta di tinte terrose e verde bottiglia, su cui si stampano a contrasto stoffe sontuose e musiche di flauti e liuti.
Nonostante le incertezze del tempo e della sua vita, Parmigianino, pittore emiliano di grande talento, seppe scovare la bellezza degli uomini dentro il fluire torbido di quei giorni.
Guardate questo sconosciuto: non sappiamo chi esso sia, né che mestiere facesse. Era un facoltoso uomo sulla trentina, bello, indubitabilmente bello e fiero della propria cultura a cui allude il libro ma anche la parasta dorata alle spalle, decorata con raffinate grottesche.
Ci guarda, un occhio è in ombra ma l'altro, grande e vigile, ci scruta sotto sopracciglia folte, di una tenebra curata e pettinata come la barba. Appartiene al nascente ceto borghese: ce lo dice la sua eleganza ostentata ma comoda, i gioielli, un copricapo austero ma calzato con casualità. La forma conta ma è esteriore e lui lo sa bene. E' ricco e lo fa vedere ma a lui, come al pittore e come a noi, preme far fiorire sulla superficie dipinta l'intelletto vivace, la mente pensante.
Veste e gioielli lo rendono parte simile di un insieme sociale: l'arguzia e l'intelletto, da quel contesto, invece lo distinguono. Un ritratto si fa per dire entrambe le cose: io appartengo a voi ma da voi io sono diverso.
Egli sa, complice il pittore, che quella veste raffinata e quel cappello passeranno di moda, che i secoli li renderanno cimeli della storia. Ma non passerà il modo fiero di guardarci, non cambieranno il senso del comprendere e del farsi comprendere. La potente pervicacia con cui egli ci guarda è simbolo di un immutabile stato delle cose umane: la sua interiorità diventa eterna, diventa mia, diviene nostra. E' ora. Ci racconta e ci sussurra da quel fondo verde bottiglia che siamo sostanza di una civiltà potente, nobile ma malata. C'è un prima e un dopo quel lontano momento di primo Cinquecento. Un filo attraversa quel prima e quel dopo e ci lega a questo bellissimo uomo, ad altri prima e dopo di lui, rendendoci tutti concittadini di una storia fatta di ombra e luce.
Quando un ritratto ci regala questo incanto, scopriamo l'essenza reale dell'opera. Ed allora l'arte,a discapito stavolta dei suoi autori e dei loro decadenti committenti, assolve un suo misterioso dovere: documentare anche ciò che la storia, nel materiale scorrere degli eventi, tralascia in quel limbo di emozioni,gesti e pensieri fondanti che chiamiamo vita comune.

Parmigianino
Ritratto di uomo con libro,
1525 ca.

New York, Art city Gallery


domenica 30 giugno 2013

Le divinità della musica,

Abbiamo bisogno della musica.
Chi studia le origini del tutto, ha ideato una somma bugia, ovvero che l'uomo l'abbia inventata, la musica, prima col ritmo e poi col suono, per celebrare la caccia, per accompagnare la poesia.
La musica esiste ancor prima dell'uomo. Perché, prima di tutto, ci fu il suono. Fu la voce di una divinità che parlò per dare nascita al cosmo. E la voce è suono e il suono è musica e il suono è fiato e dunque vita. Musica e vita sono fatte della stessa sostanza.
Le antiche civiltà concessero alla musica divinità speciali, malinconiche e vaganti come Orfeo, incantatrici e sfortunate come Marsia o Pan, presuntuose e potenti come Apollo.  Nessuna di esse è stabile, esse procedono ondivaghe, fluttuanti, sottoposte a continuo mutamento. Così è infatti la costituzione della musica, perenne movimento fisico ed emotivo.
Molti miti riconnettono la musica alla saggezza e all'astuzia: fu Athena, ad esempio, a creare il flauto prima di rinnegarlo, e Mercurio, il dio volante, scaltro e furbissimo, creò la lira dal guscio di una testuggine dopo una notte di bagordi; anche l'induista Sarasvati, la fluviale 'colei che scorre', presiede tanto alla saggezza che alla musica: esse, come il fiume, sono correnti che fluiscono mai uguali a se stesse.
L'estatico dio azteco Xochipilli governava il suono melodioso ma anche il raccolto e l'amore, nonché il gioco, ricordandoci che la musica è anche questo: fioritura, erotismo, divertimento.
L'egiziana Hator, archetipica Grande Madre, gioiosa e amorosa, contendeva il predominio sul regno dei suoni a Toth, il misterioso dio della scrittura e della magia, colui che con la testa d'Ibis canta alla luna e trascrive il giudizio di Osiride per l'accesso Duat, il regno dei morti: la musica da tempi immemorabili accompagna i riti funebri, affinché nell'altrove ci sia suono, perché come dicevamo la musica è vita.
Cavalca un drago, invece, la dea della musica giapponese, Benzaiten, protettrice delle geishe e dei danzatori, splendida e sensuale, nata dal mare come una Venere d'oriente.
Ogni religione contempla il suono e il canto; ma anche ogni protesta, ogni unione, ogni festa pagana e popolare necessitano della musica. La musica è colta e volgare, è altissima e greve, è spiritualità e ventre, è tutto. Dell'universo esprime ogni aspetto con sfumature e gradazioni che nessun colore, nessuna parola, nessun pensiero potrà raggiungere.
Essa è divina, è l'unica arte che gli uomini non hanno creato. L'hanno solo infinitamente declinata dopo averla ricevuta in dono dalle divinità.

Celebriamo oggi questo dono prezioso con l'ascolto di un pezzo straordinario del 1915, le Danze Rumene di Bela Bartok. https://www.youtube.com/watch?v=4HAIHSqiwAA





martedì 18 giugno 2013

IL TAROCCO DELLA TORRE ovvero 'breve storia dell'umanità in relazione alle vicende legate agli edifici verticali'

La torre, il tarocco della torre.
Cambiamento epocale, distruzione, tabula rasa.
Il tarocco della torre indica il sovvertimento radicale del
presente, l’evento traumatico che fa deflagare le certezze. Il noto
si frantuma, avanza l’ignoto. Ma anche l’inaspettato, la chance
d’un mutamento.



A ben guardare, la storia della civiltà prevede sempre la costruzione o la distruzione d’una torre e ciò coincide quasi sempre con momenti di critico passaggio. La torre è emblema dell’ambizione, dell’ambizione degli uomini.
Ascendere verso il cielo, in verticale, significa sfidare gli dei, portare affronto ai numi tutelari. La torre ha preceduto di millenni l’avverarsi del sogno umano di sollevarsi nei cieli. Mentre Icaro precipitava nei mari del mito per aver osato sollevare la propria superbia verso il sole, le antiche civiltà popolavano il mondo elevando solide torri a gradoni, spericolate dita di pietra rigirate contro il regno degli dei giudici. La più nota di quelle meraviglie è passata alla storia come Torre di Babele. Non sappiamo se Babele sia la gloriosa Babilonia, capitale del regno immenso di Assurbanipal e di Nabuccodonosor. Certo è che Babele e Babilonia sono nomi vergognosamente simili, anche se Babele in aramaico significa confusione e Babilonia porta di Dio. Ma Babilonia era una metropoli, antica e superba, trafficata da milioni di genti d’ogni provenienza. Per cui, senz’ombra di dubbio, l’epiteto di confusionaria le si addiceva di sicuro. Inoltre la torre di cui parla la Bibbia potrebbe identificarsi con la grande Ziqqurat che si elevava nel centro della metropoli.
Una piramide immensa, di gradoni che scalavano l’aria verso le stelle con fontane e giardini. Essa offriva alla stirpe degli uomini la scala per giungere agli dei.
Ma se gli Dei della Mesopotamia potevano apprezzare questa sorta di connubio con gli umani, il Dio unico degli ebrei, che sarà poi lo stesso delle nostre religioni moderne, era troppo superbo e ansioso per accettare un simile affronto, sicché intervenne per interrompere l’erezione del bolide di pietra.
Libro della Genesi, capitolo 11, versetti 1 – 9. “Tutta la terra aveva un medesimo linguaggio ed usava le stesse parole. Or avvenne che gli uomini, emigrando dall’oriente, trovarono una pianura nella regione del Sennar e vi si stabilirono. E dissero l’un l’altro: ‘Su, facciamo dei mattoni invece che di pietre e di bitume in luogo di cale.’ E dissero: ‘Orsù, edifichiamo una città e una torre la cui cima penetri il cielo. Rendiamoci famosi per non disperderci sulla faccia della terra’. Ma il Signore scese a vedere la città e la torre, che gli uomini costruivano, e disse: ‘Ecco, essi formano un popolo solo e hanno tutti un medesimo linguaggio: questo è il principio delle loro imprese. Niente ormai li impedirà di condurre a termine tutto quello che si propongono. Orsù, scendiamo e confondiamo lì il loro linguaggio, in modo che non s’intendano più gli uni con gli altri’. Così il Signore di là li disperse sulla faccia delle terre ed essi cessarono di costruire la città, la quale fu chiamata Babel, perché ivi il signore confuse il linguaggio di tutta la terra e di là li disperse su tutta la terra.”
Se prestiamo fede al mito biblico, dunque, dalla distruzione della torre di Babele ne deriverebbero la confusione delle lingue, l’incomprensibilità, il non capirsi più.
La sciagura delle intolleranze, la sconfitta delle lingue che, di tutti le convenzioni umane, sono le uniche a erigere barriere fra gli esseri nascono allora, con quel crollo. Non è forse vero?
Laddove la musica affratella, la pittura ci raggiunge tutti, le architetture ci impressionano senza badare alle nostre razze, le lingue, inesorabilmente ci dividono.



Da quella prima erezione e da quel primo crollo, ne deriva dunque il primo, sommo male della nostra storia.
Liquidiamo così il mondo antico con le sue torri? Non diciamo nulla del grande faro di Alessandria? La torre mastodontica che dalla testa dell’Egitto proiettava luce ai quattro angoli del Mediterraneo? Una delle meraviglie del mondo. Architettura sublime. Tecnica mai vista prima. La modernità nell'antichità!
L’immenso faro si elevava sul fronte del porto di Alessandria, la città su cui Alessandro Magno aveva posto il governo della dinastia dei Tolomei. Città di scambi e d’incontri, profumata di spezie, adorna di scintille d’oro e lapislazzuli. La città della più grande biblioteca dell’antichità. Migliaia di rotuli. In essa era conservato tutto, assolutamente tutto il sapere del mondo antico. La sapienza abitava ad Alessandria, vi aveva trovato un’accoglienza vasta e luminosa quanto il faro della città. Ordinatamente disposta su scaffali di legno, dentro corridoi silenziosi raggiunti dalle lingue, dai pensieri, dalle arti di tutte le Terre allora conosciute, la scienza degli uomini era stata catalogata e preservata sulle rime del Grande Mare dalle acque color del vino. Ma anche quella doveva essere un’ambizione troppo grande per gli uomini. La sapienza, come le torri, piace poco alle divinità. E nel Grande Mare della Porpora viaggiante, abitavano dei rabbiosi e intolleranti. La biblioteca andò a fuoco, trascinando con il suo sconfinato rogo tutta quella saggezza. Il faro, l’alta torre della luce, si disfece tredici secoli dopo precipitando nel mare dove ancora giacciono le sue millenarie pietre, scolpite da giganti. La caduta del faro di Alessandria e l’incendio della biblioteca segnano la fine del mondo antico: si prepara una tabula rasa della civiltà, un sommovimento di pensiero e conoscenza. Il mondo entrò allora in una nuova stagione, cupa e diversa, che del passato avrebbe salvato solo rovine e lacerti di sapienza.



Ciò nonostante, l’uomo avrebbe continuato a erigere architetture verticali: i campanili e i minareti! Lo fece per ingraziarsi quell’unico Dio, superbo, che era sopravvissuto all’ecatombe del sacro del mondo antico. Quel dio che le torri le distruggeva, accettò che a lui si elevassero come frecce del martirio le punte acuminate di architetture traforate e austere.
Gli uomini erano furbi, più furbi di lui, però.
Già, perché nella selva di pietra delle città medioevali, accanto ai campanili ruffiani, sorsero altre torri, centinaia, migliaia di torri. Emblema delle nuove classi, orgoglio dei borghesi, visone concreta e tangibile della ricchezza dell’individuo. Eccolo, nuovamente l’individuo, l’uomo che si impone, impone se stesso sugli altri e primeggia, assalta la vita e la vince, teme Dio ma lo affronta sulla terra con l’altezza della sua torre gentilizia.
S’alzano, guardate, una dopo l’altra! Le innumerevoli torri d’Italia. Quelle di Pavia e di Ascoli Piceno, scabre, ferrigne. Le due gemelle sottili di Bologna, la Ghirlandina di Modena, il Mangia a Siena, il bosco di pietra di Lucca su cui campeggiano le torri alberate dei Guinigi, ovunque sorgono, ovunque sfidano il cielo. Sfuggono l’asfissiante reticolato di pietra e fetore delle città medioevali, uscendo dall’ombra della paura per proiettarsi al sole, simili a missili, a falli spudorati, simili a pugnali.



Ma il tempo segnò la fine anche di quella stagione.
La stagione delle torri.
Crollano per incuria, s’accartocciano su se stesse, i gusti mutano e gli uomini le abbattono per fare spazio all’aria, la ragione ripulisce le città. I profili dell’orizzonte si sgomberano di questi puntaspilli lapidei che per secoli hanno costellato i paesaggi.
Per lungo tempo, per secoli, le torri scompaiono dalle pagine ingiallite dei progetti degli architetti. L’uomo affronta il cielo con la scienza, brama il volo, chiede elevazioni sempre più audaci. Ci provano i geni, costruiscono fallimentari macchine destinate a voli abortiti: la vite volante, la nave volante, le ali con stecche di balena… poi, nel secolo frivolo delle rivoluzioni e delle parrucche, ecco che si fanno passi avanti. Si inizia a volare! L’uomo gonfia i primi aerostati capaci di farsi più leggeri dell’aria elevandosi verso gli dei. Madame e messieurs, venite, venite al gran volo dei fratelli Montgolfier!


Giunge a questo punto, trascinata dall’elio e dai colori pastello delle Rivoluzioni, l’epoca della modernità! Oh, sì, sì che giunge, il mirabolante XIX secolo! E stranamente quell’antica urgenza di elevare al cielo architetture oltraggiose rinasce.
Le metropoli osano. Anche se i cieli ora sono percorsi dal volo sonnolento e maestoso degli aerostati, le città devono dimostrare le loro ardimentose pretese. A Torino, l’architetto Antonelli eleva entro il 1900 l’altissima, spericolata guglia della sua mole. La mole Antonelliana sarà l’edificio in muratura più alto d’Europa! 167 metri di sfida laica, un affronto se pensiamo che inizialmente doveva essere una Sinagoga ebraica. Un affronto. L’umanità che si proclama vincitrice della fisica. Un proiettile acuminato proteso a ferire il cielo di Torino, quel cielo in cui passano ora le grandi mongolfiere, di fronte alle Alpi solenni e innevate contro un cielo color carta da zucchero.



Non fu la mole dell’Antonelli, però, la torre più ardita del XIX secolo. Quel tempo che ebbe il sapore della sabbia e profumo di tabacco ebbe la sua superba ziqqurat.
È la tarda primavera del 1889. Un grande evento! Alla corte d’Europa giunge il mondo intero. La corte d’Europa, quell’anno, è la città di luce, Parigi.
Chiunque vi giunge, la vede, immensa. Mai s’è visto un più ardito affronto al cielo. L’uomo ha vinto, esalta a sua ascesa ed è egli stesso Dio! 6 maggio 1889. Apre la Grande Esposizione Universale. I padiglioni sono pronti, si estendono come fantasie e capricci sulla grande explanade. Ma su tutto campeggia Essa, la torre ferrata dell’ingegnere Gustave Eiffel. 324 metri di altezza: 18.038 pezzi di ferro forgiati, più di due milioni e mezzo di bulloni, 10.000 tonnellate di eleganza che s’incurva verso il cielo. Enorme parafulmine, trionfo dell’ingegneria. Anch’essa è un padiglione, l’emblema dell’Esposizione. Verrà tolta non appena la manifestazione  chiuderà, così ha deciso la commissione organizzatrice. Poi le cose seguono un corso diverso e lei rimane là, a dominare la metropoli per sempre. La modernità, il trionfo del nuovo che avanza.



     Ecco, immaginate ora di stare lassù, vicino al fonografo installato da Edison sulla torre. Non occorre un aerostato per dominare il mondo. L’emozione è incontenibile.
Ai piedi del bolide ferrato, sui cui lati sono sati incisi i nomi dei luminari della scienza e della tecnica della Grande Francia, si estende il mondo. Nei padiglioni, minuscoli a guardarli da quell’altezza, si dipana una geografia globale: c’è l’Italia, laggiù la Germania vicino alle colonie della Persia, le ballerine Giavanesi, il Celeste Impero e ancora il Giappone, le cui stampe ci portano l’aria di nuova bellezza, rarefatta come un sogno.
Ecco le colonie del Senegal, più in là il Siam, il Tonchino, la Bolivia, il Brasile e il Venezuela!



Per un attimo pensereste di volare, esattamente come nei romanzi di Verne. Compiere il giro del mondo in un secondo dalla vetta della torre per farvi subito ritorno. Poi vi svegliereste dal sogno. Scendereste a terra, passeggiando per quelle meraviglie, fra gli immensi padiglioni dalle forme esotiche e bizzarre. Gli architetti eclettici del tempo hanno mescolato tutto il mescolabile. Il risultato è quantomeno bizzarro.
C’è qualcosa che non va. La folla dei visitatori si appresta ai padiglioni esotici scrutandone i figuranti, oriundi di terre lontane, come se fossero animali di uno zoo. È una curiosità morbosa, che nasconde diffidenza e presunzione. Gli Europei sono colonialisti, quella è loro merce. L’incanto delle ballerine di Giava è un giocattolo per i borghesi, le loro movenze sono esotiche ma proprio per questo pittoresche, persino pacchiane in quel contesto così lontano dal loro contesto. Nelle architetture dei padiglioni si avverte già lo stereotipo, l’idea alterata che dell’altra parte del mondo ci si fa in Europa ascoltando i racconti dei viaggiatori, sfogliando i giornali, osservando le illustrazioni che deformano la realtà e la riproducono agli occhi degli europei così come essi vogliono che sia: inoffensiva, goffa, primitiva, ancestrale, infantile… li chiamano canachi.
Canachi. Sono gli abitanti delle colonie, i rozzi ed ingenui abitatori di regioni che l’Europa intellettuale e potente ha assoggettato e che sfrutta con abilità. La ricchezza di Parigi dipende anche da quell’esproprio. Quella di Londra quasi esclusivamente! Pensare che questa gente così diversa sia ingenua e rozza, aiuta a non porsi il problema. Viene sfruttata, raggirata, dominata e i danni di questo affronto non tarderanno a farsi sentire.
Molti non se ne accorgevano. Per loro era normale. È questo un amle antico per l’Europa, non ha mai saputo guardar oltre il proprio presente.
Ma poi il tempo è andato oltre quel presente e si è visto come si svilupparono le cose. Nell’esposizione di Parigi, che sembrò tanto meravigliosa ed eccitante, c’erano tutti i germi del male. All’ombra della grande torre della presunzione, non ci si accorse di cosa l’Europa stava facendo.
Non ci rendemmo conto che ogni padiglione europeo sfoggiava la sua supremazia. Ogni Nazione si preparava a rivendicare la sua identità, e quelle con più colonie, sembravano godere di un prestigio maggiore. Non avremmo mai immaginato dove ci avrebbe portato tutto questo…
Al buio.
Agli eccidi, alle guerre. Eravamo al tramonto di un’epoca e nemmeno ce ne rendevamo conto.
Anzi! Pensavamo così ingenuamente di essere sulla soglia di una nuova stagione della civiltà. Ed invece…
E invece la torre di ferro fu come un chiavistello che si rompe. Nessun Dio intervenne al momento per punire quella superbia. I filosofi, in quegli anni, sostenevano che gli dei erano caduti per sempre. Ma la punizione giunse, oh se giunse, e fu terribile, terribile come era stato per la torre di Babele. La miriade di lingue che si contorceva in un falso entusiasmo ai piedi della torre Eiffel, quella nuova Babilonia fatta di lingue e dominio, avrebbe incappato nuovamente nella tabula rasa della storia. La fine di tutto questo, se tutto questo ebbe una fine, sarebbe stata 56 anni dopo, su un’isola del Giappone. Una torre di fumo immensa, un fungo senza precedenti. Lo sfiato mortale di una divinità corrotta che avrebbe sancito, in modo irrevocabile, la sconfitta dell’umanità tutta.



Ma la storia non si ferma. Non rallenta mai, anzi, tende ad accelerare. E dunque consacra nuove torri, oppure le svelle. Il tarocco non sbaglia. Le tabulae rase, così dolorose eppure care al tempo che scorre, sembrano davvero aver sempre a che fare con le torri. Il gioco non si smentisce mai.

11 settembre 2011
Ed ancora fatichiamo a capire. A guardare più avanti.


from 'Nimbus: l'amore ai tempi del vapore'



venerdì 7 giugno 2013

Memorie di un maestro precario: salutando i piccoli fiori.

Ciao fiori di questo giardino segreto, coltivato e vissuto per lunghi mesi, giorno dopo giorno.
Fiori incredibili, fiori terribilmente belli, fiori che a settembre mi sembrarono spaventosi e che ora lascio con occhio umido, pieno di gratitudine.
Differenze che contano, distanze che dilatano e non separano, colori in mutamento. Vedervi nell'insieme è un incanto che fa paura e riempie il cuore di bellezza. Sapervi discernere e comprendere ciascuno per se stesso, è un insegnamento che lascia profondi solchi destinati a germogliare.
Grazie.
Grazie di avermi accolto, tollerato e compreso, accettato, accordando fiducia. Noi vi abbiamo dato semi e concime, voi ci avete riempito di nettare e polline necessario per crescere ed imparare ancora.
Quando la scuola è così, uno scambio autentico, abbiamo costruito, abbiamo reso bello il grande giardino della vita.
Grazie.


mercoledì 29 maggio 2013

Memorie di un maestro precario: I bambini della classe sismica e la voce incantata.

Avevo promesso ai bambini che se si fossero comportati correttamente alla gita all'acquario di Genova, avrei fatto loro una sorpresa. Poiché la gita è stata proprio bella e loro hanno dimostrato maturità, la promessa è stata mantenuta. In verità, l'avrei mantenuta anche se le cose non fossero andate così bene a Genova (lo so, lo so.... è pedagogicamente sbgliatissimo ricattare i bambini con promesse e ancor più, mantenerle se le condizioni non sono state rispettate...ma che ci volete fare? Sono un disastro da quel punto di vista... amen). Se poi aggiungete che, invece, i ventiquattro epicentri sismici della classe si sono rivelati dei meravigliosi compagni di viaggio, mantenere la promessa antipedagogica mi ha fatto ancor più piacere.
Bene, sapevano che martedì mattina, dopo la ricreazione sarebbe giunta la sorpresa.
- Cosa è? Chi è? - Chiedevano da giorni. Anche i genitori, sentendo questa voce, all'uscita mi facevano domande curiose. Ma io zitto come un pesce dell'acquario di Genova. Le sorprese sono misteri che funzionano se e solo se li si serba fino al momento in cui non si svelano. Io credo molto nel valore emozionale e formativo delle sorprese.
Martedì mattina i bambini mi hanno visto arrivare a scuola col mio grande pianoforte elettrico a tracolla.
- Ohhh, la pianola! Che bello...
- Non è una pianola - rispondo stizzito (i miei amici sanno che se vogliono offendermi nel peggior modo, devono chiamare il mio raffinato pianoforte yamaha 'pianola') - ma un pianoforte!
- ragazzi, ragazzi! - grida da fondo le scale la mia loquace Segretaria, la Scrittricecuriosa . - Il maestro ha portato la pianolaaaa!
- Che bella sorpresa! Era questa vero? - Ribatte Parlatore a duemila che nel formularmi la domanda ad una velocità impossibile è come se mi avesse chiesto: - Cbbllsrpr,eqtvro?- Ma io ormai sono bravissimo a decifrarlo. Nego.
- A parte che non è un pianola ma un pianoforte elettrico, ma non è questa la sorpresa.
Ho allestito il piano nell'agorà della classe e poi, quando sono riuscito a farli sedere, ho cercato di parlare. Ma non c'era attenzione. La mattina il terremoto non si calma con facilità. Allora ho messo le mani si tasti. Un re maggiore con dei tremoli. Una folata di vento magico.
Le voci scemano. Scende un silenzio e la musica si infiltra. I loro occhi bellissimi si voltano. Ora ci siamo.
Parlo mentre le mie mani suscitano un vento leggero con accordi aperti (incidono sull'umore lasciandolo in attesa...):
- Abbiamo passato un anno importante, lungo e bello. Anche difficile. Siamo cresciuti, abbiamo imparato tante cose. Vorrei che stamani ci scambiassimo un regalo. Io suonerò per voi fino alla ricreazione e voi scriverete un testo, un testo come preferite, ispirati dalla mia musica.
Accettano. Prendono i quaderni.
Io inizio a viaggiare, percorro le geografie di un anno importante come se fossero le tappe di un itinerario dentro una mappa fatta di emozioni, incontri, scontri, tentativi, perdite e conquiste. Loro non lo sanno ma mi sto congedando. Ogni anno arrivo a questo maledetto punto in cui l'essere precario mi distrugge, sento di aver costruito qualcosa (bene o male non so) e poi il futuro incerto mi rende impossibile promettere a me e a loro che a settembre ci sarò di nuovo, ci saremo di nuovo. Che andremo avanti assieme.
Suonavo e dentro di me sentivo di carezzare uno per uno i loro cuori, portarmene un ricordo con me. Il mio è un lavoro, non una missione. Ma è un mestiere che lega fortemente, che agisce sulle emozioni e sugli affetti. Non è facile mantenere distanze equilibrate. E forse non voglio nemmeno che sia così.
La musica ha sollevato la nostra classe nel cielo, sopra le nuvole, verso un orizzonte che deve essere il loro, non il mio. Un insegnante deve indicare l'orizzonte ai suoi allievi. E lasciare che essi abbiano strumenti per raggiungerlo come meglio credono.
Quando mi hanno portato i loro testi, li ho letti accompagnandoli con la musica. Non vedevo gli errori, non mi infastidivano le incongruenze sintattiche. Era il loro regalo. Ed era bellissimo così. La mutevolezza della musica, i vari passaggi si sono trasformati in un cangiante rifluire di parole, immagini. A volte persino in un torrente di non senso che mi ha commosso. C'erano pirati, fuochi notturni, cieli stellati, c'era il vento (che è il mio elemento principe), la foresta incantata, il sole, la tristezza e l'allegria, la paura, la dolcezza.
Quella fatica di parole mi ha abbracciato, mi ha portato di nuovo nel cielo indicandomi un orizzonte, stavolta tutto mio. Perché la mia inesperienza di insegnante ha bisogno di evolvere e nessuno più dei bambini mi può indicare la via.
- Che bella sorpresa Maestro.
- Che bel regalo bambini, grazie. - Li ho abbracciati alla fine di ogni lettura - Ma la sorpresa vera arriverà dopo ricreazione!
Allora di nuovo è scoppiato il terremoto per sapere chi o che cosa sarebbe venuto o avvenuto. Ma io zitto come un lamantino dell'acquario di Genova.

Passata la ricreazione - eravamo ancora in giardino - è giunta la sorpresa. Elisa, la cantante del gruppo di cui faccio parte, gli Actias Luna, è venuta a scuola. Mi ha fatto questo regalo immenso. L'avevamo progettato da tempo, ha fatto un cambio turbo a lavoro ed è venuta da Pisa proprio per fare loro una sorpresa. Sanno che suono in un gruppo ed hanno ascoltato qualche nostro pezzo. Soprattutto sono innamorati di una canzone 'Sebastiano', sulla quale abbiamo lavorato per parlare di discriminazione e pregiudizio. Nessun tema come la comprensione della diversità mi accompagna da sempre. La canzone parla di un fatto di cronaca: un bambino effeminato che i compagni prendevano in giro, si lascia morire nella neve credendo di potersi addormentare e risvegliare in un mondo migliore. La storia e la musica della canzone hanno scioccato i bambini a tal punto che varie volte mi hanno fatto domande volendola riascoltare.
Elisa era venuta proprio per questo ma non solo.
L'hanno accolta, anzi! Assaltata.
Elisa è una persona delicata, emana una luce soffusa e avvolgente. Vederla alle prese con quella selva di emozioni irruente è stato bellissimo. Si avvicinavano gridando, curiosi, colmi di energie e poi, mentre lei rispondeva sottovoce, a volte con una pausa, si calmavano e si quietavano.
Insomma, siamo saliti in classe e ci siamo sistemati. Hanno creato uno stipatissimo golfo mistico a mezzaluna intorno al piano e alla cantante. C'era anche Giulia, la mia meravigliosa collega di classe, con la quale ho condiviso un anno professionale ed umano importante e dalla quale ho imparato tanto. Ero felice che ci fosse. Anche se sapeva di questa sorpresa, il regalo era anche per lei, per esprimerle riconoscenza, per festeggiare assieme. Giulia ha ali potenti per volare, deve solo scoprirlo. Sta già volando alto e i bambini Le devono tantissimo. Spesso, entrando in classe sul cambio dell'ora, li ho visti navigare altissimi verso le mete complesse della matematica e delle Scienze, danzare come meteore nello spazio multiforme della geografia. Giulia è stata uno specchio per me, il più prezioso. Le sue parole mi hanno calmato quando ero teso, ravvivato quando ero spento, sorretto nel mare mosso, trascinato quando c'era bonaccia. Dovevo dire GRazie a Giulia, anzi, volevo dal profondo del cuore dirLe Grazie. E' importante esprimere riconoscenza.
Desideravo anche che la scuola accogliesse Elisa come un luogo di apertura dovrebbe fare. E così è stato. Sara, la variopinta collega di quinta, la poetessa, Le ha portato una caraffa di acqua con un bicchiere. Sorriso e gentilezza, ciò che basta.
Così, ad inizio anno, Sara accolse me, spaurito precario pieno di insicurezze e paraventi da abbattere. Con un sorriso ed un entusiasmo che solo le persone veramente aperte hanno, Sara è stata la prima luce che mi ha mostrato l'orizzonte bellissimo entro cui avrei vissuto questo viaggio. In quell'orizzonte c'erano i volti di tutti gli altri colleghi che mi avrebbero regalato momenti di umanità e di crescita. Grazie Sara per avermi accolto e per avere accolto chiunque. L'accoglienza è un dono senza eguali. Dona cittadinanza a chi non ce l'ha. Consegna una chiave per avere accesso, ci rende uguali, ci rende preziosi.
Mi è sembrato un gesto bello e prezioso che Sara portasse l'acqua a Elisa.
E' così che le società dovrebbero funzionare. Ripartire da autentici gesti di accoglienza.
Quando la musica è partita, Elisa ha emanato la sua voce. Io conosco quella voce, l'ho protetta e studiata. So che non ha eguali. Esiste solo lei, chiusa fra il diaframma e l'anima della mia amica speciale. Quanto nel parlare Elisa mantiene un tono basso e delicato, tanto quella voce esce nel canto profonda, acuta, potente. Eccola ora cantare Sebastiano, avvincere i bambini, commuovere Giulia. Una voce incantata, come la musica di Orfeo che avvinceva animali, piante e uomini.
Inizialmente intimorita da quel pubblico, Elisa si è sciolta e l'incanto ci ha portato altrove. Sulle cullanti note di una Ninna nanna per calmare le tempeste chiuse dentro i bambini, nell'abbraccio breve e intenso di alcuni haiku, nel fruscio sonoro del bastone della pioggia, fino al roboante frastuono della Metropoli di Beffamburgo.
Abituati al cattivo canto di tanta musica che infesta le nostre orecchie, ascoltare quello strumento meraviglioso, limpido e potente, ci ha fatto proprio bene.
Alla fine, per ricambiare la gentilezza di Elisa, i bambini le hanno donato un disegno, un haiku o una canzone scritta sull'onda della suggestione. Ognuno nel suo modo, ha detto grazie. E io sono stato felice perché martedì mattina lo ricorderò come il giorno dei ringraziamenti, quelli espressi e quelli interiori. Un giorno che vorrei chiamare non 'Giorno del ringraziamento' bensì 'Giorno della riconoscenza'. Io credo che sia bello e doveroso dirsi grazie.
Lo dico ai miei 24 bambini, a Elisabetta, la loro maestra degli scorsi anni che me li ha passati in consegna aiutandomi a comprenderli uno per uno, lo dico a Giulia, mio specchio e mia compagna di viaggio, a Sara che accoglie e illumina, a Tiziana che sorride e mi dona la luce anche se piove, a Carla che come una quercia racchiude sotto la chioma esperienza e storie, a Valentina che ci ha coinvolti in una magia unica di creature meccaniche, aironi e distese di bellezza; a Antonio e Alessandra che sanno sempre sorridere e porgere una mano; a Licia che attendeva di condividere la sua esperienza come un fondale marino segreto, a Daisy che sottovoce ci raggiunge con delicati pensieri e regala dolcezze che profumano di mandorle, a Elena che dialoga e che guida anche nel tempo avverso, a Cristina maga delle scienze e dell'informatica, a Licia riservata ma pronta ad aiutare, a Tamara dalla disponibilità unica, grazie ai giochi di prestigio e magia di Giancarlo. E poi ringrazio di cuore le due colleghe di sostegno, Letizia che regala sguardi trasversali e supporta tenacemente la mia disorganizzazione del mercoledì pomeriggio e Maria, con il suo ascolto costante e la sua delicata mano che sorregge.
Dico grazie ai genitori, coi quali il dialogo è necessario, a volte faticoso, a volte illuminante. Costruire percorsi richiede ascolto e rispetto e ce l'abbiamo fatta.
Ringrazio la scuola pubblica, questa, fatta di gente che lavora, che si confronta, che sopravvive in questi tempi in cui, la grande nave dell'istruzione statale sta andando a picco. Possiamo fare di tutto, tentare il tentabile ma alla fine, anche questa ricchezza e queste professionalità uniche, se le cose non cambiano, andranno a picco.
E di questo non diremo grazie a nessuno.

Elisa è andata via col sorriso.
In classe avevamo tutti il sorriso.
Le sorprese fanno bene.
Ancor di più, essersi detti: 'Grazie'.

Elisa, grazie a te per tutto. Grazie alla tua voce.
Martedì mattina non ce la scorderemo più.



foto by Carlo Alberto MAgli