domenica 24 novembre 2013

Le danze pericolose del tardo autunno.

Come se
del cielo rinfrescato
avesse sfiorato la terra
la guancia
in un gelido attrito.                          

Una stasi d'umido
s'è allargata
simile ad un
capovolto
orgasmo.

Rattrappirsi.
Il faro, nella notte,
un riccio tardatario
agguanta
nel fascio opaco.                          

Ora, sì,
escono ora
dalle dimore celate
d'edera,
da cascate di
verde insidioso.
Escono
le signore cupe
dell'ultim'autunno.

Danze, ci sono,
pericolose
nelle vie montane,
che non si devono
ballare.
Le vecchie ascolta.
Il monito loro
meglio
funziona
dell'aglio.

A guardia
d'offuscati passaggi,
penetra l'osso della madre
terrosa
il passo cadenzato
del disfacimento.

Ne senti l'odore?
Fungo e foglia marcia,
umida terra e legno.
Quando i velari
di nebbia intrappolata
fra i crinali,
s'acquieteranno,
allora
sarà inverno.






lunedì 18 novembre 2013

Un esperimento: nel tempo e nello spazio lontano. L'Inghilterra pastorale.

Il pittore John Constable, indiscusso maestro del Romanticismo inglese, è noto al grande pubblico per un numero ristretto di opere. In genere i manuali di storia dell'arte riportano il suo bucolico 'Mulino di Flatford', e qualche studio delle sue mirabili 'nuvole'.











Fu una vera ossessione quella che lo imprigionò in un costante studio sul tema delle mutevole viaggiatrici dei cieli per tutta la vita.


Ma Constable è un artista dalla produzione sostanziosa. Egli riveste un ruolo centrale negli sviluppi della grande rivoluzione pittorica ottocentesca. Proprio dagli studi sul paesaggio e sulle nuvole, centrati sul rapporto che il trascorrere della luce solare produce sulla realtà fisica, i grandi innovatori del XIX secolo diramarono le loro sperimentazioni che ebbero nomi altisonanti: realismo e impressionismo.
Fra il 1821 e il 1824 le sue opere esposte a Parigi conquistarono i giovani pittori e Delacroix si dichiarò debitore dell'incredibile capacità di analisi ottica dell'artista inglese.
Ma chi era Constable?
Era nato nel Sussex, in una campagna inglese che grazie alla sua pittura è divenuta un paesaggio mentale di portata mondiale al pari della Toscana o della Borgogna.
Quel paesaggio lo nutrì e divenne tema dominante e infinitamente declinato della sua pittura. Fu, infatti, essenzialmente un paesaggista. Diede alla veduta, atmosferica, densa, palpitante, dignità di soggetto nobile.
Sappiate che quando leggete un romanzo di Dickens, ogni qualvolta i personaggi si avventurano nel territorio rurale dell'Inghilterra vittoriana, siano essi David Copperfield o la povera Nelly col nonno in fuga, ebbene, voi state immaginando la scena ambientata in uno scenario che è stato Constable a costruire.
La potente visione verdeggiante di questo artista non solo ci restituisce la visione meno consacrata di un paese, l'inghilterra, che fino al XIX secolo aveva regalato poco al mondo in termini di pittura e quel poco riguardava per lo più Nobili e Signore in parrucca entro scenari arcadici o situazioni grottesche di vita cittadina. Quella del pittore del Sussex è l'Inghilterra pastorale, un territorio autentico, ordinato e antropizzato ma dove la relazione faticosa uomo-natura si compone di tre elementi sostanziali: paesaggio (ed è il verde a dominare), elementi rurali che indicano il lavoro dell'uomo (e le tinte sono quelle dei marroni), il tempo atmosferico (dove luce e nuvole si contendono una gamma che dal grigio scivola fino al cobalto).
Capita spesso di imbattersi in luoghi amati dal pittore, ad esempio un piccolo cottage con recinto presso un boschetto. Quei luoghi ricorrono, più volte, ora in autunno e poi in primavera. Stessi luoghi, sentimenti mutati. La luce e la stagione li vestono d'abiti emozionali differenti. Anche in questo fu precursore di similari ricerche nel campo dell'impressione.

Guardando questi remoti angoli di campagna inglese, si sente un movimento ampio di vento, un respiro naturale che profuma d'erbe, di bacche, di umidità.
La vita di Constable fu tormentata e sfortunata. L'arte non gli concesse grandissime entrate, lui stesso azzardò, dilapidando. L'amata moglie Maria Bicknell, morì dopo aver dato al mondo il settimo figlio. Allevò da solo i figli ma non fu un oculato amministratore del denaro sicché visse anni malinconici e tormentati.
Eppure, nella sua arte, tutto questo sembra filtrato e sublimato nell'enorme alito di cui vivono ampi panorami, vedute di marine nordiche, di colline e pascoli in fuga verso orizzonti ora quieti ora malinconici.
A questo punto vorrei chiudere la riflessione su un grande pittore forse troppo poco conosciuto, riagganciandomi a quanto dicevo poco sopra, sul fatto che Constable ha consegnato ai posteri un immaginario che è diventato un patrimonio culturale e visivo.
Così come Dickens ambienta le sue storie in paesaggi alla Constable, ancora dopo possiamo ritrovarne intatta la poesia nel mirabile panorama sonoro di alcuni compositori inglesi attivi fra la fine dell'800 e la prima metà del '900. Esiste una vera e propria scuola di musicisti 'pastorali' che grazie alle infinite sfumature dell'orchestra sinfonica, seppero descrivere il paesaggio inglese, quello di Consatble, con prezioso trasporto, senso lirico, dolcezza e struggimento. Si tratta quasi sempre di musiche superficiali ma non nel senso negativo del termine. Esse suggeriscono, descrivono, senza cercare altra verità che quella del godimento d'una passeggiata fra verdi colline e boschi.
Sono musiche estetizzanti come estetizzante è quasi per intero la cultura anglosassone.
In questa cerchia di musicisti, si staglia la stazza d'un prolifico e aristocratico compositore, Sir Vaughan Williams. Bene, ora vi chiedo di osservare per circa un minuto, in religioso silenzio, il dipinto sottostante. A seguire cliccate il link che troverete subito sotto l'immagine ed ascoltate ad occhi chiusi la meraviglia della musica.
Concedetevi 11 minuti per voi e per questo rito.

Poi ditemi se occhio, orecchio e cuore non hanno mai trovato più assoluta unità.
Grazie del vostro tempo.









http://www.youtube.com/watch?v=E5tquD727ik




lungomare. Un omaggio alla Versilia e alla sua luce




domenica 17 novembre 2013

La scelta della forma. Tornare al pensiero.

Ogni tanto provo a disintossicarmi da questa droga chiamata social forum.
Stavolta, ho idea, mi concederò un periodo di distanza più lungo e più sensato.
Se è un luogo comune l'affermare che ci stiamo allontanando gli uni dagli altri, che ci buttiamo su relazioni umane virtuali per poi trascurare quelle reali, andrà una volta di più sottolineato che i luoghi comuni esasperano quasi sempre dati effettivamente dimostrabili.
Ho sempre pensato che FB fosse uno spazio rischioso, una lama tagliente che seziona il lecito dall'illecito, il sano dall'insano, il creativo dall'omologato.
Come molte delle cose neutre che ci circondano, è l'uso che ne facciamo a stabilire le loro correttezza etica.
Penso di avere sempre usato FB con intelligenza seppur a volte con eccesso.
Il mio uso personale di FB è sempre stato similare a quello di un blog. A seguito della presa di coscienza che fra coloro che seguivano i miei post, c'era chi desiderava leggere solo il lato di me più artistico, conciliante o poetico, criticando o non comprendendo tutta l'altra fetta di me, ho creato questo blog dove sentirmi più libero.
Ho diminuito le riflessioni complesse su FB perché mi rendevo conto che molte persone non si concedono questo lusso strepitoso che è detto complessità.
C-o-m-p-l-e-s-s-i-t-à.
E lì che, ancora oggi, colgo l'inghippo. Il social forum tende a banalizzare e a rifuggire la complessità: in quell'intreccio di bacheche virtuali, ci ritagliamo profili ad uso e consumo di... Per cui se io sono il maestro poetico e un po' romantico, così devo persistere. Viceversa se, fedele al mio essere, rivelo anche un pensiero critico sostanzialmente feroce, un lato spinoso, un mio essere che contempla anche la critica, la riflessione cupa, ecco che si affacciano le critiche di chi non comprende o chi desidera un 'me corografico, compatto, unilaterale'.
Ma io non ci sto.
Chiunque, oggi, rifugga dalla complessità, è destinato a schiantarsi nel futuro. Essere complessi, come di fatto siamo, ci permette di ricercare e di provare a conciliare le opposte correnti che attraversano l'arcipelago interiore del nostro viaggio. Solo chi è complesso nel guardare e nell'ascoltare, sa essere complesso nel pensare. E dunque può capire il mondo.
A fronte di questo frustrante rifiuto dell'altrui complessità, FB mi rivela costantemente una pletora di persone che sentono, così, di dover comunicare le azioni e i pensieri di ogni momento della loro giornata. In genere oscuro quelle persone, ovvero non tolgo loro l'amicizia ma scelgo l'opzione che mi impedisce di vedere gli aggiornamenti (a volte terribilmente frequenti, anche nell'ordine dei secondi) dei loro profili.
A me piace leggere le riflessioni di persone che conosco o con le quali ho una qualche forma di relazione; non sono moltissime quelle che compongono la lista dei miei amici.
Amo leggere e discutere, al limite, riflessioni, battute, poesie, critiche: MA AMO LEGGERE COSE CHE SIANO IN PRIMIS FARINA DEL SACCO DI CHI SCRIVE (e non le condivisioni di quei terribili e preconfezionati messaggi ora amorosi, ora spiritualistici, ora moralistici, ora falso sapienziali, ora falso ecologisti, ora allarmistici, ora fautori di una controinformazione totalmente sbagliata e per nulla documentata) e poi, soprattutto, amo leggere cose che siano pensate.
Perché bisogna pensare prima di agire e di parlare, ancor più prima di scrivere.
E invece in questo sistema di comunicazione veloce, quasi istantanea che rende FB una chat più che un forum, tutto scorre via veloce; si accusa, si afferma, si giudica, si commenta, si esterna senza meditare, senza fare ricerca, senza contare fino a 10. E si chiede scusa, come faccio sempre io, quando a commento di un'altra persona ci si permette di obiettare (e lo faccio sempre contando fino a 10, spesso desistendo dall'impresa). Perché anche se è un forum, la bacheca è personale e siamo liberi di leggere o non leggere i post altrui.
Io credo che dobbiamo ritrovare la dimensione del tempo: e nel tempo trovare quella del pensare: e nel pensare identificare la dimensione della coerenza. Quando infine abbiamo valutato di essere coerenti, possiamo procedere.
Tutto allora acquista un piacevole senso di spessore: la battuta, anche la più lieve, così come la poesia, come la riflessione politica o religiosa, lo spunto creativo, la grottesca o ilare frivolezza, la condivisione di un'immagine, di un video, di un sogno.
Date a ciascuna di queste possibilità il pensiero ed avrete un piccolo tesoro. Perchè pensando avrete dato loro forma.
Senza pensiero la forma manca e la forma non è solo l'esteriorità delle cose. Nel bene e nel male siamo figli della civiltà classica. In quell'alba di grazia e tragedia, abbiamo appreso che forma e contenuto sono sostanza unica di ciò che facciamo.
Io alla forma ci tengo. Perché essa mi offre quasi sempre garanzia di un pensiero che l'ha organizzata.
Può essere anche sgradevole, oscura, aggressiva. Ma se è una forma, ha dignità di cosa pensata.
Io torno al pensiero e alla forma. Mi ci voglio radicare nel pensiero.
Vi aspetto tutti qua, in questo mare dove passo il tempo ad ascoltare le balene.
Qua, se passate, potrete lasciare qualsiasi traccia, riflessione.
Purché concediate alla mano il riposo che sottende il tempo prezioso del pensare.
Pensiamo, vi prego.
Pensiamo.




domenica 10 novembre 2013

Felici e rabbiosi

Siate felici ma anche colmi di rabbia.
Che con questa luna e con questo sole,
chi è felice senza rabbia, gioisce di gioia sterile.

Siate rabbiosi ma anche saturi di gioia.
Che con questi venti e queste correnti,
chi è rabbioso senza gioia, fa seccare la vita.

Siate gioiosi, d'una felicità consapevole.
E reattivi alla rabbia, rendetela fertile.
Procedete come la tempesta primavera,
che spazza le carcasse ed ammanta il mondo di semi.

Non cercate la quiete delle vette,
perché è facile vivere da aquila solitaria.
Sono le formiche, nel brulicare della vita,
a soffrire e vivere veramente.

Non cercate una gioia posticcia,
quella dei mistici dell'ultima ora.
Quella dei giornalisti barbuti, ricchi e anacoreti.
Non cercate nemmeno la rabbia cieca,
quella degli urlatori e dei qualunquisti,
La rabbia di chi senza pensare ci vuol fare pensare.

Siate gioiosi e rabbiosi,
in egual misura.
Solo così verrà un tempo migliore,
in cui riporremo le armi
e potremo solo danzare.



martedì 29 ottobre 2013

Memorie di un maestro precario: - Maestro! - La terribile chiamata.

- Maestro! -
- Che c'è? -
- Ma te ti vesti sempre antico, sempre un po' cinese.... -
Avevo la camicia alla coreana nera. Tutto qua.

- Maestro! -
- sì? -
- Possiamo farti Filippa Lagherbac? -
Le guardo: sono tre. Biondissimairrequieta, Verticaleletterata, Silentemistero.
- Ho capito bene? -
- Sì, dai, possiamo? -
E' ricreazione, sono seduto sulla panchina. Vorrei controllarli a distanza ma respirare. Arrossisco e sorrido flebilmente. Sto per dire che non importa...che si allontanino.
- Ha sorriso, è un sì! - Esulta Verticaleletterata.
Mi sorbisco l'intero spot del deygam per ben tre volte. Le prime due non sono di gradimento delle attrici. La terza invece è un trionfo.
Muoio dal ridere.

- Maestro! -
- Ohioi, dimmi... -
Alle otto di mattina rispondo sempre con un - Dimmi bello, dimmi cara! -
Alle dieci e mezza già converto in - Su, che c'è? -
A mezzogiorno e quarantacinque è - Ohioi, dimmi! -
Ora è - Ohioi dimmi... - Manca dieci all'una.
- Maestro, ma quando si mangia? -
- Fra dieci minuti se e solo se vi sarete lavati tutti le mani ma vedo che siamo indietro! -
- Eh, ma non ci chiamano! - polemico, Piccolorappersfinente, accusa i due incaricati di chiamare i compagni per dar loro scottex e sapone.
- Nooon è vero! - ribadisce offesa l'incaricata, Verticaleletterata che è sempre corretta, onesta, buona. Ce l'ha tutte, poveraccia, per sopravvivere male in questa giungla di belve.
- Oh, noon è vero! Ora vuoi dirmi che non è vero? - La rimbrotta lui dabbasso, guardandola dalla sua bassezza. Lei lo scruta con occhi pieni di sopportazione:
- Bene, visto che ti ho chiamato per quattro volte e hai fatto finta di non sentirmi, ora te lo dico a modino. Vai a lavarti le mani. -
Sorrido: che signora. Che classe. Lui rosica. Sperava nella piazzata ma Verticaleletterta no! Lei è superiore. Niente piazzata.
Si guardano con una lunga pausa.
Gli occhi azzurri di lui sono furbi, bellissimi.
Le sorride.
- Scusa, sono proprio uno sciocchino. -
Riceve il sapone e lo scottex e a tempo di hip pop se ne esce di classe.

- Papà! -
-Eh????? -
- Oh dio, scusa Mestro, a volte mi scappa! Mi confondo. -
- Mi ci mancherebbe questa. -
Mi squadra malissimo.
- Che vorresti dire, scusa? Devo offendermi? -

- Maestro! -
- siiiiiiiii? -
- Ci porti in gita a Micene quest'anno? -

Poi penso a tutti noi di fronte alla porta dei Leoni, alle mura poderose degli Achei e nel tholos spettacolare della tomba di Atreo e penso: però, sarebbe mica male!


mercoledì 9 ottobre 2013

Perché l'Armonia ha a che fare con la guerra

Oggi riflettevo sulla musica. Sul concetto di armonia. Su ciò che essa effettivamente è e ciò che essa significa in un traslato simbolico. Poiché da quando faccio il maestro ho iniziato un percorso personale sugli archetipi, la mia testa va subito alle radici del pensiero occidentale. E, quasi sempre, mi trovo a ragionare di miti.
Cosa è l'armonia? Tecnicamente è il sostegno musicale generato da almeno due suoni sovrapposti in verticale che imprime ad una melodia un determinato effetto. La cosa più semplice da capire nel complesso mondo dell'armonia è il celebre 'accordo', l'unione di tre suoni in contemporanea, tre suoni in verticale, appunto che fra loro siano compatibili. A seconda dei suoni scelti e delle distanze fra loro intercorse, l'accordo armonico sortisce effetti emotivi diversi, positivi o negativi, tristi o allegri, cupi o luminosi. L'occidente ha ridotto questa dicotomia secondo due categorie modali, il modo maggiore e il modo minore. Ma gli antichi greci avevano capito che si potevano evocare molte più sfumature. Ora, senza entrare nel tecnico, vorrei fare notare che già nel parlare di suoni compatibili si ragiona di 'relazioni'. Non tutte le note stanno bene assieme se suonate nello stesso tempo. L'armonia è un insieme di note che, suonate assieme, producono un effetto soddisfacente.
Se mi passate un paragone, dobbiamo immaginare la melodia come una strada sospesa, curvilinea, e l'armonia come l'immensa struttura di piloni verticali che la regge. La distanza regolare fra i vari piloni, è il ritmo. Melodia, armonia, ritmo sono le tre parti fondanti di quel miracolo chiamato musica.
La melodia nasce nelle parti molli e sensibili del nostro corpo: la generiamo con il cuore, con lo stomaco, con la parte più superficiale  libera della testa. Ma l'armonia, e anche il ritmo, sono cose più cerebrali. Esse non nascono mai spontaneamente. Sono frutto di un'elaborazione. Tanto che la melodia può essere solo una (infatti è determinata da una sequenza solo orizzontale di suoni), mentre l'armonia necessita di almeno due suoni sovrapposti. La voce umana come qualsiasi altra voce animale può intonare una melodia, mai un'armonia. Per creare quest'ultima ci vogliono almeno due persone che cantino note diverse e, ripeto, compatibili. Dirò di più: la stessa melodia se sorretta da diverse armonie, può cambiare radicalmente il suo aspetto e i suoi effetti.
Ora, questo effetto della compatibilità ha molto a che fare con la relazione. Se ci pensate, essere in armonia con gli altri significa trovare compatibilità. Produrre un effetto soddisfacente. E qui nasce il grande fascino e la grande scommessa dell'Armonia sia come entità musicale che come simbolo della nostra complessa realtà di vita.
Forse ricorderete che Armonia nacque, quale dea, dall'unione di Ares, dio feroce della guerra e dell'aggressività, e di Afrodite, dea della seduzione, della bellezza, della fecondità spontanea.
Essa fu dunque la tregua fra odio e amore, emblema di una compatibilità che altrimenti si renderebbe inattuabile. Eppure, come figlia di cotanti genitori, Armonia ereditò da entrambi alcune caratteristiche. Bellezza, determinazione, ma anche bellicosità. Il mito non lo dice ma lo svela un tardo scritto latino, il De Nuptiis Philologiae et Mercurii (le nozze di Mercurio e Filologia) di Marziano Cappella dove Armonia viene rappresentata al centro di sfere rotanti, ciascuna contenente una musa, vestita di un'armatura di metallo sonoro. Essa dirige le sfere mettendole in condizione di risuonare meravigliosamente fra di loro. Il metallo di quell'armatura emette suoni piacevoli ma è pur sempre una veste guerresca. Perché produrre armonia, crearla e darle senso è azione difficoltosa, a volte ardua, sfiancante. L'armonia non è insita nelle cose del mondo.Quando alcune di esse entrano in risonanza positiva, allora creano armonia. Sono melodie che per un caso o per volontà, si dispongono secondo giuste distanze e risuonano in modo soddisfacente. Viceversa ogni singolo elemento, è in sé una melodia concentrata su se stessa. Magari bellissima, ma votata all'autodeterminazione. Perché tutto in natura tende all'autodeterminazione, che è qualcosa di più della semplice spinta alla sopravvivenza di cui ci parla la Scienza. Autodeterminarsi significa sopravvivere ma anche affermare se stessi, imporsi, distinguersi. Questa naturale propensione interessa i vegetali come gli animali e in massima parte gli uomini. Grazie a questa spinta melodica a essere unici, gli uomini creano cose meravigliose e compiono terribili azioni. Figlie dell'autodeterminazione sono l'arte e la guerra, il pensiero complesso e la perversione. In sé, dunque, essere melodie non ha alcun connotato etico. Si tratta di una condizione neutra che, inevitabilmente si converte in sopraffazione se non è regolata. Pensate agli alberi. Se umanamente disposti in filari distanziati ( e ritorna il discorso della distanza fra le note) crescono in armonico rispetto. Viceversa i più forti e tenaci si imporranno soffocando gli altri.
L'armonia è un processo del pensiero. Essa non è in sé esistente. La dobbiamo tessere, costruire, osservare e proteggere. Ma costantemente alimentare. Poiché basta spostare di poco una distanza, accorciarla o allungarla, per fare precipitare la strada nel vuoto.
Oggi dunque riflettevo su quanto musica e vita si intreccino. Quanto questo elemento, l'Armonia appunto, sia potentemente simbolico. Pensavo a me, a quanto a volte io stesso sia stato fautore di armonia e quante, invece, colpevole di crolli abissali.
Pensavo a quanto sia delicato il processo di chi insegna nel trovare le giuste distanze con cui far risuonare armonicamente classi dense di melodie, melodie forti, delicate, sottili, roboanti, rallentate o accelerate, eppur sempre tutte votate all'autodeterminazione. Ho pensato ai miei 25 allievi, e mi sono visto una tastiera di infinite note. Dar voce alle melodie è prioritario come pure metterle in condizione di avere distanze soddisfacenti affinché esse producano armonia.
Così penso che, infine, quest'artificio del pensiero possa anche chiamarsi pace. Concetto altrettanto complesso, abusato e innaturale. Ma qui si entra in altri miti e lascio cadere la similitudine.
Mi piace concludere ricordando che Armonia fu data in sposa a Cadmo, re di Tebe. Una delle loro figlie fu Semele che, unitasi a Zeus, ne fu folgorata. Il feto da lei portato in grembo fu cucito nella coscia di Zeus fino al compimento del nono mese. Allora il Dio sommo partorì Dioniso, dio misterioso dalla vita complessa, legato al vino, all'ebbrezza, allo stato allucinatorio. Ma dio anche della pazzia, del piacere sfrenato, dell'abbattimento della regola. Trovo meraviglioso che questo Dio e non il vanesio, limpido eppur vendicativo Apollo, dio della musica, sia nipote di Armonia. Essa, come insieme regolato di relazioni, doveva generare discendenze destinate a rompere quelle stesse norme senza le quali siamo destinati ad un'eterna guerra. Perché, il mito ce lo dice, oltre che della bellezza, Armonia fu figlia della guerra.






lunedì 30 settembre 2013

Un'idea della politica utopistica?

l fatto che noi italiani non ci stiamo minimamente preoccupando per la crisi di governo può dire una serie di cose, non compatibili l'una con l'altra:
1 che siamo i soliti superficiali
2 che siamo talmente immersi in una crisi perdurante, anche di tipo
governativo, che non percepiamo alcuna modifica sostanziale tra prima
e dopo crisi del governo.
3 che abbiamo priorità impellenti, tipo sopravvivere, per cui ormai
abbiamo tirato i remi in barca consapevoli che il Paese e il suo Governo
sono due entità distinte.
4 che solo una guerra, una catastrofe, una pericolosa scintilla possa
radere al suolo questo stato incivile di cose.
5 che siamo più profondi di quanto si pensi, che diffidiamo dei movimenti e
del concetto banale di 'democrazia partecipat(iv)a' ma che al contempo
non sappiamo come credere nella 'democrazia rappresentativa' visto che
non ci rappresenta per nulla.
6 abbiamo capito che nemmeno il potente strumento della manifestazione
di piazza sortisce più alcun effetto dal momento che quelli contro cui
protestiamo sono i primi a dire: bravi, fate bene a protestare. E'
democratico protestare.... e con questa retorica della democrazia ormai
sciorinata in ogni dove e senza cognizione, i politici sono riusciti nella
titanica impresa di demolire il senso altissimo e spinoso di quel concetto.
7 ci appelliamo alLa Costituzione così come ci si appella alla Bibbia.
Affermiamo il vero nel dire che è un testo luminoso, combattiamo per
difenderla ma poi? Non siamo capaci di tradurla nel quotidiano,
modernizzandone le istanze scritte più di 60 anni fa. Come se essa
valesse solo per i politici. Predicando bene e razzolando male. Proprio
come la Bibbia appunto.
8 abbiamo bisogno dei rottamatori, dei guru, di quelli che ci dicono che
'bisogna agire e non parlare'. E nessuno dice che prima di tutto bisogna
'pensare'. Perché agire senza pensare è come parlare senza fare. E
quando dico pensare dico: riflettere, meditare, analizzare, compenetrare,
assorbire in profondità, avere lungimiranza.

Io voglio un paese guidato da una classe intellettuale fatta di teste etiche e pensanti. Che non accontenti 'la gente', orribile concetto quello di 'gente'. Così si va nel populismo, nella demagogia facile, e su quel fronte abbiamo già ampiamente dato. Necessitiamo di una cosa alta, di una istituzione illuminante. E nemmeno abbiamo bisogno di una politica che nasca dai movimenti di base poiché questi servono a punzecchiarla la politica, e fanno benissimo, servono a metterla di fronte allo specchio perché si ravveda se non si attiene ai programmi, ma non devono avere pretese di sostituirsi a chi deve guidare. Perché una classe dirigenziale dovrebbe avere competenze, specificità e qualifiche tali da non rendersi intollerabile e disgustosa a tal punto da farci pensare di poterci sostituire ad essa.
La vera politica, che io vorrei, è quella che si fa carico dei bisogni primari della cittadinanza tutta, ovvero la sanità per tutti, l'istruzione per tutti, i diritti sacrosanti del lavoro. Che garantisca i diritti civili in senso moderno, senza alcun retaggio religioso ma mossa da una percezione umanistica e inoppugnabile dell'essere umano e dell'ambiente come 'entità' di rispetto integrale. Punto. Di lì in poi si entra nel nulla, o nel dettaglio.
La politica, una volta presasi cura di questo, deve innalzare la cittadinanza, migliorarla, aprire le teste, indicare orizzonti nuovi e alti. Non deve, viceversa, ascoltare quell'informe borbottio qualunquista che chiamiamo 'gente' e agire di conseguenza. Per quella via, si è visto quali catastrofi, perché di catastrofi si tratta, siamo stati capaci di raggiungere.

Quest'anno leggerò ai miei alunni la Costituzione e farò in modo che capiscano che il primo luogo dove essa deve essere applicata è la nostra classe, il nostro paese, il nostro spazio vitale quotidiano. Solo quando saremo cresciuti nell'assorbimento forte e profondo di quel testo, torneremo ad avere il diritto (che tutti abbiamo perso, tutti!) di lamentarci o di ignorare anche questa ennesima crisi di governo.


mercoledì 25 settembre 2013

Memorie di un maestro precario: saluti, pigrizie, pronomi, parolacce e Paolo Uccello.

- Maestro, non mi hai salutato nemmeno stamani! -
- Ma veramente ti ho detto buongiorno, sei tu che non mi hai sentito. -
- Eh no, io sento tutto e non me lo hai detto. -
- Ma come? -
- Dimmelo, su, dimmi 'ciao' -
La guardo, minuscola come lo scorso anno, ma tenace e guerriera. Le sorrido:
- Ciao! -
Allora mi abbraccia forte e poi mi guarda seria:
- Domani non te lo scordare! -
Si allontana con le sue amiche.

- Maestro, quando si mangia? -
- Tra un po', ora concentrati. Stiamo facendo grammatica. -
- Ho fame. -
- Bene, analisi grammaticale di 'Ho fame' - Lo fisso severissimo.
- No, no, scusa, mi ero sbagliato. Anzi, non ho fame per nulla! -

- Allora, ripassiamo i pronomi personali. -
- Maestro, - alza la mano Distrattoconfuso, - NI dici a questo qua, - indicando un compagno molesto, - di stare zitto? -
..... pausa dolente del maestro.
Silenzio.
La classe mi guarda. Lui mi scruta e mi vede tentennare nel mio ruolo. Non capisce.
- Maestro? - mi invoca, vuole che prenda posizione sulla sua richiesta. Effettivamente Sfasatosensibile lo ha tormentato per più di dieci minuti.
- Va bene, - inizio, - NI dirò qualcosa. -
- Bravo. -
- Posso chiederTI una cosa? -
- Certo maestro, sono qui per TE. -
- Quel NI, cosa vorrebbe dire? -
- A lui, pronome personale no? Non si stavano ripassando? -
Sono molto soddisfatto.

- Maestro, quel bambino mi ha detto che sono una gran figlia di Puttana - piangendo.
- Oh, - esclamo contrito e imbarazzato, circondato dal carosello di colleghi e alunni della ricreazioni in giardino, - intervengo subito ma non occorre ripetere queste parole. -
- Ma se non te lo dicevo e che so.... ti venivo a dire: 'quel bambino mi ha detto una brutta parola', mi rispondevi che non era nulla di grave. Tanto ti conosco. -

- Maestro, quando noi saremo grandi tu sarai già morto! -
Aridaglie! Già lo scorso anno era saltata fuori questa cosa. Non potendo fare alcun tipo di scongiuro poiché sarebbe alquanto diseducativo, mi lancio sul professionale sconfinando nell'area di Giulia, la mia collega di scienze e matematica.
- Scusate, bambini, ma se io ho 38 anni e voi 10, quando voi avrete la mia età....-
- Oh mio dio no! - Esclama Provocatricecritica, - non iniziare anche te con i problemi ora! Va bene, va bene, non morirai, sei contento? -

Guardiamo intensamente la scena di San Giorgio e il drago di Paolo Uccello. Li ha incantati. Si susseguono, no anzi, si accavallano, le loro osservazioni, le opinioni, le letture.
- Maestro, - dice Altissimagentile, - questo quadro mi piace. Sembra di stare dentro una fiaba. -
- Hai proprio ragione, anche a me fa questo effetto. -
- Ci sono molti particolari, - aggiunge Provocatricecritica, - e le nuvole a destra fanno  paura, aumentano la paura! -
- E anche la grotta! - Aggiunge Pignoloridente, - mi fa un po' ansia! -
- Ma sulle ali del drago ci sono delle decorazioni - Esclama Biondinatenace.
- Sembra un pavone, il pittore ha voluto rendere bello tutto in questo quadro, anche il drago! - osserva Scrittriceloquace.
Ah, se Paolo Uccello avesse saputo quali occhi attenti e profondi avrebbero guardato il suo capolavoro! E se solo gli storici dell'arte, ogni tanto, ascoltassero i bambini!




lunedì 16 settembre 2013

Perché non amo il Piccolo Principe.

Stasera ho capito perché non amo il Piccolo Principe.
Perché è scritto con l'intento di insegnare, di dare messaggi. Quando incappo in un libro scritto programmaticamente per fare questo, anche se intriso di poesia, io sento puzza di presunzione. Sottrae alla casualità dell'incontro, dal quale si impara e si apprende inaspettatamente, l'aspetto più bello e importante: il caso, appunto.
Nel libro di Saint- Exupery tutto è stato pensato a priori, lo stereotipo abita sotto i personaggi dell'incontro e sovrasta la loro valenza simbolica. Ad ogni passo, l'autore sembra dire al giovane lettore: ecco, ora ti sto insegnando qualcosa sulla vita! Ecco, questa cosa così ben detta devi farla tua, ci devi cavar fuori una lezione.
Diffido degli scrittori dell'infanzia che sono convinti di essere così vicini ai bambini da potergli insegnare cose sul mondo....
Uno scrittore che scrive per i ragazzi, deve innanzi tutto pensare di essere lui il primo ad imparare qualcosa, consapevole del tragico evento che risiede nell'essere cresciuto, inesorabilmente. C'è una distanza incolmabile fra lui e quel regno inquietante che si chiama infanzia. Anche il moralistico Collodi, nel concepire quel capolavoro ambiguo e potente che è Pinocchio, era partito con l'intenzione di educare... ma qualcosa gli sfuggì di mano. Grazie a Dio. Pinocchio incappa nel male, inciampa, fa incontri, incontri luminosi e incontri terrificanti. Prova ad imparare ma non vi riesce sempre. Anzi, ricade nel proprio errore. Chi lavora coi bambini sa che questo è vero. Il suo viaggio ha realmente in sé la forza formante della casualità.
Nel mondo mieloso e programmato del Piccolo Principe, invece, noi adulti ci gongoliamo perché attendiamo ad ogni tappa cose che già sappiamo e che, se devo dirla tutta, non sono nemmeno così vere.


sabato 7 settembre 2013

Digiunare, perché?

Mi intristiscono i digiuni.
Sia che siano religiosi sia che siano simbolici. 
Nel primo caso, c'è da chiedersi perché mai un Dio che permette una guerra (perché o 'sto Dio ci ha dato la libertà o ce la fa gestire a singhiozzo secondo l'estro, il che andrebbe chiarito) dovrebbe poi ripensarci impietosito da alcuni fedeli che per un giorno non mangiano; nel secondo caso, mi sembra che sia di cattivo gusto che un buon borghese occidentale si conceda il lusso di non mangiare per un giorno per esprimere dissenso verso il 'silenzio dei potenti'. 
Quando sento dire che digiuniamo perché siamo contro la guerra in Siria (ed io lo sono, fermamente, si intenda), mi viene da accostare queste due immagini, e chiedere: non sarà che per lenire il fastidio della prima (delle immagini che, ahimè, sono tragica, insopportabile realtà), dimentichiamo la seconda (altrettanto terribile e atroce?). 

Forse dovremmo scendere in piazza e gridare, perché il silenzio sbagliato si abbatte con le grida e con l'agire. 
Non con una dieta giornaliera. 
Perdonatemi, ma sento questo. 
Se sbaglio, aiutatemi a capire.
E' bello sentire la fatica quando sai che va nella direzione giusta. Quando fai un lavoro che, nonostante le umiliazioni costanti e latenti del precariato, vale comunque la pena di quella fatica e di quelle umiliazioni. 
Ripartiamo, anche quest'anno, ma per me c'è un'emozione in più. La continuità.
Provo per la prima volta la sensazione confortante di essere nella stessa scuola, ritrovare colleghi stimati, relazioni già avviate e soprattutto i nostri 24 bolidi furenti, fiori del bel giardino misterioso che, almeno quest'anno, non ho dovuto abbandonare.
E' come sapere di partire per un nuovo viaggio con una ciurma conosciuta. Ma gli orizzonti si allargano e le terre da esplorare si fanno ancora più estese. 
Di nuovo in viaggio per mare, di nuovo in ascolto, di nuovo a coltivare. 
Bello, bello sentire questa magia. 
Questa voglia di iniziare. 
Questa voglia di primo giorno di scuola.

Questo bel dipinto di Bruegel sembra esprimere compiutamente il senso di quello che sento, ora. In primo piano la certezza di una terra sicura, dove arare diviene parte di una procedura conosciuta eppur sempre modellabile, mutevole. Un contadino coscienzioso sa che le stagioni si trasformano così come muta la terra e che il proprio bagaglio di conoscenza va al servizio di quei cambiamenti, ad essi si adegua senza imporsi. Seminare significa comprendere il cambiamento e saperlo rendere fecondo.
Da questa balza sicura si spalanca l'orizzonte di un nuovo viaggio: il vascello è pronto, manca solo di issare l'ancora. Isole, scogli, sole e nuvole tempestose. Questo è lo scenario che accoglie il nostos, il viaggio. Un'esperienza antica e necessaria. Per affrontarlo, in quella barca stiviamo ciò che si è seminato e raccolto. Lo portiamo con noi. Quello ci servirà a sopravvivere, a vivere, ad andare avanti. Si parte alla ricerca di nuovi semi, nuovi pigmenti e spezie da riportare. Perché la nostra stiva sia sempre ricca, in crescita, pronta ad accogliere.
E se l'orizzonte ci invita, noi andiamo. 
Senza paura. 
Ma con molta emozione.

giovedì 15 agosto 2013

Pittori da scoprire: l'audace dimenticato. Altobello Melone.


Guardate, vi prego, questo dipinto. Lo trovo di una bellezza sconcertante. Ci raggiunge dal primo Cinquecento come uno schiaffo, una testimonianza di verità tra le più belle e singolari di tutta la storia del ritratto.
Si tratta di un'opera nota come 'La coppia degli amanti', della quale il pittore ha redatto più di una versione. Questa è quella del Museo delle Belle Arti di Budapest.
L'artista per molti è poco noto. Il suo nome è rimasto celato nei meandri della storia ed è conosciuto soprattutto dagli studiosi. Si chiama Altobello Melone, nacque a Cremona negli ultimissimi anni del Quattrocento quando le innumerevoli civiltà artistiche italiane sembravano un galleggiante mosaico di vitalità e voglia di primeggiare in bellezza. Il nostro paese era un continuo scintillio di variazioni su temi e suggestioni che correvano freneticamente per tutta la penisola. L'Italia era allora un'idea e una sagoma geografica. Non poteva essere altro che questo poiché la sua superficie era frazionata di stati, satelliti e città in guerra o in aperta gara.
Altobello, nascendo a Cremona, fu apparentemente distante dai centri maggiori ma ne subì l'influenza senza venirne eccessivamente contaminato: questo lo rese colto ma spregiudicato, educato eppure libero di inventare. Da Milano lo raggiunse un certo naturalismo leonardesco proteso su sfocate lontananze e distese fatte d'acqua e corpuscoli aerei; a Brescia, ove lavorò con il grande Romanino, costruì una visione luminosa e piena, gustosamente curiosa dei dettagli del vivere quotidiano; da Venezia, l'arrogante Serenissima, assimilò un gusto carnale del colore e una sprezzante trascuratezza del disegno.
Guardate ora questo capolavoro: si capisce subito che il pittore è una mosca bianca nell'universo artistico di allora tutto proteso ad un ideale assoluto di bellezza aulica. Qua siamo di fronte ad un pittore anticlassico, che viene attratto dall'inconsueto, dagli aspetti meno convenzionali della vita. In questo fu aiutato dagli esempi di pittura tedesca e fiamminga che in quei tempi circolavano in Nord Italia. I due giovani, seppur in qualche modo vestiti d'eleganza, sembrano rampolli svitati, i meno preferiti, i secondo geniti poco considerati di qualche buona famiglia mercantile. Hanno fatto appena l'amore o lo faranno entro poco. Ma non gioiosamente, saranno come offuscati dalle loro inquietudini, magari da una qualche droga consumata assieme, in una intimità che profuma di fuga, disperata ma orgogliosa, dalla durezza della vita. Questi due giovani non anticipano forse intere generazioni di veri o presunti dandy, di poeti maledetti, di bohemien scapigliati? Possiamo spingerli fino ai recenti decenni delle contestazioni e li troveremmo paurosamente attuali. Bellissime le parole di Mina Gregori quando di Altobello Melone, a proposito di questo dipinto, sottolinea:

"l'impasto inestricabile di miseria e nobiltà che s'impersonano in questo malinconico Ruzzante e nella sua compagna."

Questo tipo di ritratti mi colpisce sempre perché ha il potere di toccare in modo commuovente i sottotesti della vita, i 'non detti' che a volte sono ciò che dona massima consistenza all'esistenza umana.
In quel sapiente mixage di malinconia e fiera autodeterminazione, nel consapevole sentirsi diversi nel destino ma anche nell'abbandono ad un abisso di rischi, i due amanti giovani del dipinto ungherese sembrano chiedere diritto di asilo oppure, invece, sdegnano il nostro guardarli, certi che nell'assunto borghese che ci connota saremo incapaci di comprenderli. 
La grigia consistenza di tenebra che li avvolge li consegna così alla storia, belli e dannati, non inquadrabili, fuori dalle facili etichette. Io li amo profondamente questi due amanti giovani e sfortunati, la loro umanità sfocata mi appartiene, mi pungola come una sofferenza sottile. 
Per questo penso che all'arte occorrano sempre menti come quella di Altobello Melone, divergenti e capaci di andare oltre al canone per cogliere la vera vita. Terribile e commuovente.

lunedì 12 agosto 2013

La maledizione di Horton

Guardava nel buio, attraverso quella coltre caduta come una maledizione sul suo orizzonte. Metteva a fuoco uno
spiraglio che non concedeva altro che vaghe idee. La distesa piatta che chiamiamo vecchiaia, era arrivata spietatamente a reclamare la sua monotonia. Sottraendole quel mezzo che le era stato più caro d'ogni altro, la vista. Lei che aveva letto, viaggiato leggendo, imparato leggendo. Lei che attraverso l'occhio, tramite il gesto consumato della lettura, aveva allenato la sua testa meravigliosa rendendola eternamente giovane e sveglia. Ora, quella giovinezza mentale le rendeva ancor più odioso dover vagare a tentoni, spaventosamente sospesa sul nulla, in quella landa piatta di bruma che si chiama vecchiaia. In essa, lei si diceva, anche raccogliere i frutti di ciò che si è seminato può diventare amarissimo.

sabato 10 agosto 2013

Il giardino incantato di Dürer.

Proprio oggi sono incappato in questa bellissima illustrazione. Si tratta di un acquarello del disegnatore inglese William Callow che nel corso dell'XIX secolo ritrasse l'antica casa del pittore Dürer a Norimberga.


In quella città aveva vissuto, infatti, il grande artista tedesco del Rinascimento. E in quella città era sempre ritornato dopo i suoi importanti viaggi compiuti soprattutto in Italia, dove gli artisti nordici venivano per imparare i segreti e le tecniche della grande arte.
L'acquarello di Callow ci presenta il grande edificio simile ad un maniero fiabesco, quasi miyazakiano, inserito in un contesto urbano vivace, di legno e intonaco, popolo brulicante e carri gonfi di merce. Il tutto stagliato contro un cielo tinto con quell'inconfondibile azzurro che solo il XIX secolo è riuscito a creare e che io, appunto, chiamo 'Celeste Ottocento'.
Ora, perdendomi nei minuziosi dettagli di questa illustrazione di viaggio, mi immaginavo la vita là in quella casa gigantesca, già ipotizzavo un ventaglio di storie possibili. Sì, perché questo genere di preziosi disegni hanno quel potere tutto particolare di darci l'avvio per una, dieci, cento narrazioni.
Proprio nel riflettere sulla tecnica dell'acquarello, ecco che dalla casa di Dürer son passato a Dürer stesso. Ho salito le scale dietro i graticci, mi sono immerso nelle penombre. Per le vie i carri si sono azzittiti e dall'Ottocento di Callow son rifluito nel fangoso e rivoltoso mondo della Germania di primissimo Cinquecento
Eccolo là, nella sua stanza di lavoro. Dürer. Egli era bellissimo. I lunghi capelli ben curati e impomatati per mantenere i boccoli piombati. La barba curata coi baffi intorno alla bocca carnosa.

Dürer era un narciso seppur animato da un moralismo inquieto che sapeva cogliere di sé, oltre quella bella superficie, i lati d'ombra, le malinconie, l'essenza di una vita creativa incentrata sulla solitudine. Questo ossimoro fra autocompiacimento e percezione dolente dell'esistenza, trapela in un meraviglioso disegno in cui l'artista si ritrae nudo.
L'omaggio evidente alla statuaria classica e al primo Michelangelo, si compenetra con una sorta di cupezza emotiva. Quest'uomo sapeva di essere bello e sapeva di essere profondamente tormentato.
Fu un eccelso pittore. Viaggiò molto assorbendo spunti molteplici. Si dedicò all'acquarello principalmente per due motivi: appuntare dettagli di viaggio (frammenti di paesaggi, particolari di elementi naturali o rurali) oppure studiare la natura delle cose. 
E' quest'ultimo aspetto che mi affascina di più. Scorrendo i meravigliosi disegni acquarellati dei taccuini Düreriani, si entra in un giardino di meraviglie dove accanto a zolle erbose descritte con verità commuovente, appaiono leprotti dal pelo screziato....


Dürer è stato paragonato al suo contemporaneo Leonardo per questo amore per i dati naturalistici. Io credo che egli superò Leonardo nella precisione ottica con cui seppe cogliere l'intima verità delle cose da lui osservate. Pur non avendo il piglio dello scienziato, egli procedeva in modo rigoroso. Le sue possono a tutti gli effetti essere considerate tavole botaniche e zoologiche. 
Si guardino il meraviglioso Granchio o il Cervo Volante. Alla realtà tangibile della loro natura si unisce uno sguardo complice, quello di un pittore che ama il soggetto trattato.

 


L'arte di Dürer si popola così di animali e piante vivi, capaci di restituirci il senso di una natura palpitante che viene indagata, scandagliata ma sempre amata. Essa è la fonte primaria di ispirazione. L'arte non può che imitarla.

 

Dürer coglie gli animali nelle loro azioni abituali. Ecco dunque scoiattoli che rosicchiano delle ghiande, un porcospino dall'aria assonnata, un piccolo cinghiale che sembra impaziente di scappare via, un barbagianni con l'espressione stralunata.


Si tratta di un patrimonio davvero singolare e prezioso che ci restituisce l'immagine di un nuovo mondo, quello che apre la strada al tempo che chiamiamo 'epoca moderna'. 
In quella casa splendidamente regalataci dal tratto modernissimo di Callow, tra le mille storie possibili, c'è una narrazione fatta di occhi e pennelli, di osservazione e sentimento, di animali.
Un giardino incantato, ennesima grazia concessa a noi dall'estro dei grandi artisti.

venerdì 2 agosto 2013

La condanna di Berlusconi. Per un'Italia responsabile



E ora, noi Italiani, saremo capaci di cambiare il corso delle cose?

O ci accontenteremo solo di una meritatissima condanna?

Saremo finalmente capaci di andare oltre alla beatificazione dell'evento o ne rimarremo, come altre volte, prigionieri?

Solo se accetteremo con dolore, come collettivo, come società, come grande civiltà quale siamo potenzialmente, solo se accetteremo, dicevo, quella condanna come una condanna a tutti noi, avremo la possibilità di cambiare davvero le cose. Altrimenti, se ci gongoleremo nel decantare il 'cattivo punito' senza assunzione alcuna di responsabilità, avremo fatto l'ennesimo buco nell'acqua.

Perché la sua odiosa presenza ventennale è colpa non solo di chi gli ha creduto, di chi lo ha sostenuto, protetto, difeso, idolatrato. E' anche di chi lo ha irriso, di chi dai salotti ne ha sbeffeggiato la grottesca bassezza, di chi lo ha prima sottovalutato e poi ipervalutato, di chi - mascherandosi da oppositore - ne ha assunto, come spugna fetida, il pericoloso stile d'azione e di pensiero.




Oggi siamo stati tutti condannati ed è un gran bene.




E' uno schiaffo che ci deve prima umiliare e poi spingere alla costruzione di una nuova, importante comunità civile. Nella direzione di uno stato che non abbiamo forse mai avuto o che abbiamo perduto: lo stato morale, lo stato etico, lo Stato.




Un bacio a te, Italia. Che non sei la mia patria perché non credo alle Patrie. Ma che sei la bella e martoriata terra in cui il destino ha deciso che nascessi.

Nella vergogna, oggi ti amo un po' di più.

martedì 16 luglio 2013

Occupare deve essere nobilitante. Il caso deludente del Teatro Rossi a Pisa.






Occupare.

Significa prendere possesso di uno spazio. L'occupazione è una forma di protesta, anzi, no, di rivendicazione che in massima parte è legittima. Se ci sono spazi che gli enti lasciano andare in decadenza, chi reclama un proprio luogo per vivere, comunicare, aggregarsi può appropriarsi di quel luogo, provare a mantenerlo in vita, sottrarlo all'incuria e - contemporaneamente - riconquistarlo ad una funzione. Nella cultura di sinistra in cui io stesso sono cresciuto, l'occupazione è un'azione politica e sociale che tendenzialmente ispira simpatia e richiama approvazione. Io stesso ho seguito con passione le vicende del Teatro Della Valle a Roma e, per quel che leggo, approvo ciò che un giovane collettivo lucchese ha fatto con il dismesso campo ricreativo delle Madonne Bianche a Lucca. Ora però, vorrei fare un puntualizzazione.

L'altra sera sono andato a Pisa dove da mesi è in atto un'azione di occupazione presso il Teatro Rossi, splendido edificio che gli enti pisani stanno lasciando andare in malora.

Il progetto Teatro Rossi Autogestito mi aveva incuriosito da tempo, sicché - immaginandomi una situazione simile a quella romana - sono andato a vedere uno spettacolo promosso dal quel collettivo.

Non mi piace. Così proprio non mi piace. Se si occupa un posto per mantenerlo in vita, lo si deve far vivere e lo si deve curare. Non trasformarlo in un puzzolente, trascurato baraccone che accoglie male, anzi malissimo il visitatore, lo spettatore, anzi, dirò, il sostenitore. Al di là dello spettacolo molto brutto (ma un luogo deputato alla creatività deve scommettere e quindi può anche ospitare opere che risultino non propriamente degne), mi hanno intristito le seguenti cose.- la sciattezza fricchettona(che a Pisa, ahimè, sembra aver dimora sempre più spesso): lo spettacolo doveva iniziare alle 7.30 ed è iniziato alle 20 e 20. Cioè cinquanta minuti dopo.
- i responsabili non davano indicazioni utili e precise salvo quella che l'entrata sarebbe costata 3 euro (che diamo ben volentieri per la causa...ma ora li darei un po' meno)
- La prima parte dello spettacolo si svolgeva nel foyer. Perchè nessuno aveva ripulito l'ambiente, lo aveva ordinato, sgomberato di accatatamenti vari, pulendo i bagni maleodoranti?
- Nella platea del teatro aleggiava un forte odore di urina, non felina. Anzi umana.
- Il pubblico era formato, in tutto, da sole otto persone me compreso. Nessuno dei membri del collettivo era presente. Sono uscito a metà spettacolo, onestamente respinto da ciò che vedevo, ed ho trovato seduti per terra sul marciapiede di fronte al teatro, a fumare, i cinque o sei esponenti del comitato dell'occupazione. Tristezza e rabbia: perché non erano dentro? Che senso ha promuovere e voler far rinascere un progetto se poi non si caldeggia e si sostiene ciò che in esso si fa?
Se questa è l'occupazione, io dico di no.
Dico che allora preferisco che a distruggere il meraviglioso gioiello pisano sia l'incuria del comune e non la sciattezza di giovani nei quali ho creduto e che mi hanno deluso. Questo, se permettete, è un lusso che concedo solo ai politici di questo maledetto paese.

Firmato, un incazzatissimo, acidissimo, sempre più corrosivo uomo di sinistra (colto, per giunta).

lunedì 15 luglio 2013

Tanti auguri signor Rembrandt.


Oggi si festeggia il compleanno di Rembrandt. Chiunque abbia incontrato realmente l'arte di questo pittore, sa che si tratta d'un fuoriclasse di prim'ordine. Gironzolando per mostre e musei avevo avuto modo di confermare il mio amore per l'artista olandese ma la grande mostra berlinese del 2006 mi regalò emozioni talmente profonde che da allora considero Rembrandt uno dei miei cinque pittori preferiti in assoluto. 
Rembrandt visse in un'epoca, il Seicento, in cui l'intera Europa si dedicò allo studio delle relazioni conflittuali - eppur feconde - fra ombra e luce. I più grandi pittori del secolo incentrarono le proprie ricerche su questo ossimoro che ha un connotato indubbiamente naturalistico ma anche un alto potenziale simbolico; in esso si filtrano la passione per la verità delle cose che la Nuova Scienza andava coraggiosamente propugnando e al contempo i misteri dell'inesplicabile, cercando, tramite essi, un palpabile segno del divino nel contingente. Così aprì la strada Caravaggio e lo seguirono i maestri: Velasquez in Sapgna, De la Tour in Francia, il Guercino in Italia. In Olanda, Rembrandt, perseguì la via senza esserne a conoscenza. In questo risiede la sua grandezza e unicità. Egli non proviene dal nitore feroce di Caravaggio, non cerca la naturalezza delle cose attraverso il dato reale. Egli persegue la costruzione dell'immagine entro una sfocatura dorata, dove luce significa polvere stellare e tenebra vuol dire assenza. Le creature e gli ambienti dell'artista galleggiano sospesi fuori dai contesti. Il buio che le attornia sottrae sostanza, esprime un nulla spaventoso e carico di mistero. Nel buio di Caravaggio intuisci la creazione dei corpi in scena: quello del pittore italiano è un procedimento teatrale, razionale. Nell'oscurità di Rembrandt ci sono solo corpuscoli di vuoto, fuliggine, assenza di materia. 



Ne emerge un senso drammatico ma non teatrale, bensì lirico, della pittura. La verità, la naturalezza si raggiungono per l'intensità emotiva. I ritratti vibrano, quasi sempre malinconicamente. I personaggi sono in bilico su un mondo che ha una percezione angosciosa del trascorrere del tempo. Semplici scintillii di luce opaca svelano antichi interni domestici, dove anche i profeti assumono umili identità, contorni sfocati dall'incertezza. 



L'occhio del pittore è umano, ama i suoi soggetti. Li consola ma non può che restituirci un'idea dolente, quella di una umanità che non sa dove sta andando. Confusa e in attesa. Ma anche progressista, decisa a slanciarsi a volte verso quel futuro da debellare.



L'amore per Saskia, compagna di una vita morta prematuramente, si riverbera su ritratti meravigliosi.



 L'intimità che lo lega alla donna, l'affettuosa carezza che le riserba nel modellarne le carni morbide e i velluti delle vesti, è così moderna ed attuale che ci racconta un modo a noi ben noto di vivere assieme, condividere le ore, affrontare quell'incertezza che l'epoca, anche la nostra, distende sul futuro come una gigantesca palpebra.



giovedì 11 luglio 2013

Poesia della notte estiva

Il rettangolo stellato
s'apre su lidi di suono.
Nere risacche di rane,
echi di lucciole bianche.

Cresce l'erba e riposa
sotto azzurre pianure.
Passi di danze lontane,
calano corolle stanche.

Passi di oscuro cacciare,
agguato, denso velluto.
Transiti di stelle vane,
l'eco risponde: tu, anche.





giovedì 4 luglio 2013

La bellezza degli uomini.


Il fascino del ritratto, come peculiare genere artistico, in genere ci raggiunge tardivamente. Da adulti. Non è difficile comprendere il perché di questo fatto. Si deve avere un po' di vita alle spalle per capire a fondo questi documenti magnetici. L'esperienza ci aiuta ad andare oltre il mero virtuosismo mimetico. Ai bambini e ai giovani piacciono i ritratti che sono più simili al vero, naturalistici, fotografici. A noi adulti, invece, piacciono quelli in cui, oltre la tecnica illusionistica, ritroviamo l'arguzia, la testa pensante, lo sguardo che rivela. Insomma: il ritratto interiore.
Tra tutte le tipologie di dipinto, il ritratto è quello che crea maggior tensione ed imbarazzo nell'osservatore attento. A volte ci trasforma in voyeur, altre ci costringe a restituire a quell'immagine posta oltre la finestra della cornice, un'emozione reale: interesse, affetto, astio o attrazione, commozione o complicità. I grandi ritratti ci chiamano ad una partecipazione che travalica le epoche e ci riconnette non solo con individui ormai scomparsi e, molto spesso, sconosciuti, ma con tutto il senso profondo di una civiltà al cui fluire apparteniamo. Un grande ritratto è come un'opera di Shakespeare. Può raggiungerti da date antichissime eppure svelarti l'animo dell'uomo così come è, realmente, immutabile nello scorrere del tempo. Il grande ritratto, così come la grande tragedia, ci rivela chi siamo. La finestra diventa uno specchio e ciò che vedi non è altro che la tua anima vestita d'abiti d'altre epoche.
Questo che vedete è un gradissimo ritratto. Risale all'incirca agli anni Venti del Cinquecento, l'epoca truce e cupa in cui il Mondo comprese d'essere d'una sostanza e d'una forma ben diverse da quelle che si era sempre supposto. E' un'epoca fatta di tinte terrose e verde bottiglia, su cui si stampano a contrasto stoffe sontuose e musiche di flauti e liuti.
Nonostante le incertezze del tempo e della sua vita, Parmigianino, pittore emiliano di grande talento, seppe scovare la bellezza degli uomini dentro il fluire torbido di quei giorni.
Guardate questo sconosciuto: non sappiamo chi esso sia, né che mestiere facesse. Era un facoltoso uomo sulla trentina, bello, indubitabilmente bello e fiero della propria cultura a cui allude il libro ma anche la parasta dorata alle spalle, decorata con raffinate grottesche.
Ci guarda, un occhio è in ombra ma l'altro, grande e vigile, ci scruta sotto sopracciglia folte, di una tenebra curata e pettinata come la barba. Appartiene al nascente ceto borghese: ce lo dice la sua eleganza ostentata ma comoda, i gioielli, un copricapo austero ma calzato con casualità. La forma conta ma è esteriore e lui lo sa bene. E' ricco e lo fa vedere ma a lui, come al pittore e come a noi, preme far fiorire sulla superficie dipinta l'intelletto vivace, la mente pensante.
Veste e gioielli lo rendono parte simile di un insieme sociale: l'arguzia e l'intelletto, da quel contesto, invece lo distinguono. Un ritratto si fa per dire entrambe le cose: io appartengo a voi ma da voi io sono diverso.
Egli sa, complice il pittore, che quella veste raffinata e quel cappello passeranno di moda, che i secoli li renderanno cimeli della storia. Ma non passerà il modo fiero di guardarci, non cambieranno il senso del comprendere e del farsi comprendere. La potente pervicacia con cui egli ci guarda è simbolo di un immutabile stato delle cose umane: la sua interiorità diventa eterna, diventa mia, diviene nostra. E' ora. Ci racconta e ci sussurra da quel fondo verde bottiglia che siamo sostanza di una civiltà potente, nobile ma malata. C'è un prima e un dopo quel lontano momento di primo Cinquecento. Un filo attraversa quel prima e quel dopo e ci lega a questo bellissimo uomo, ad altri prima e dopo di lui, rendendoci tutti concittadini di una storia fatta di ombra e luce.
Quando un ritratto ci regala questo incanto, scopriamo l'essenza reale dell'opera. Ed allora l'arte,a discapito stavolta dei suoi autori e dei loro decadenti committenti, assolve un suo misterioso dovere: documentare anche ciò che la storia, nel materiale scorrere degli eventi, tralascia in quel limbo di emozioni,gesti e pensieri fondanti che chiamiamo vita comune.

Parmigianino
Ritratto di uomo con libro,
1525 ca.

New York, Art city Gallery