Avevo promesso ai bambini che se si fossero comportati correttamente alla gita all'acquario di Genova, avrei fatto loro una sorpresa. Poiché la gita è stata proprio bella e loro hanno dimostrato maturità, la promessa è stata mantenuta. In verità, l'avrei mantenuta anche se le cose non fossero andate così bene a Genova (lo so, lo so.... è pedagogicamente sbgliatissimo ricattare i bambini con promesse e ancor più, mantenerle se le condizioni non sono state rispettate...ma che ci volete fare? Sono un disastro da quel punto di vista... amen). Se poi aggiungete che, invece, i ventiquattro epicentri sismici della classe si sono rivelati dei meravigliosi compagni di viaggio, mantenere la promessa antipedagogica mi ha fatto ancor più piacere.
Bene, sapevano che martedì mattina, dopo la ricreazione sarebbe giunta la sorpresa.
- Cosa è? Chi è? - Chiedevano da giorni. Anche i genitori, sentendo questa voce, all'uscita mi facevano domande curiose. Ma io zitto come un pesce dell'acquario di Genova. Le sorprese sono misteri che funzionano se e solo se li si serba fino al momento in cui non si svelano. Io credo molto nel valore emozionale e formativo delle sorprese.
Martedì mattina i bambini mi hanno visto arrivare a scuola col mio grande pianoforte elettrico a tracolla.
- Ohhh, la pianola! Che bello...
- Non è una pianola - rispondo stizzito (i miei amici sanno che se vogliono offendermi nel peggior modo, devono chiamare il mio raffinato pianoforte yamaha 'pianola') - ma un pianoforte!
- ragazzi, ragazzi! - grida da fondo le scale la mia loquace Segretaria, la Scrittricecuriosa . - Il maestro ha portato la pianolaaaa!
- Che bella sorpresa! Era questa vero? - Ribatte Parlatore a duemila che nel formularmi la domanda ad una velocità impossibile è come se mi avesse chiesto: - Cbbllsrpr,eqtvro?- Ma io ormai sono bravissimo a decifrarlo. Nego.
- A parte che non è un pianola ma un pianoforte elettrico, ma non è questa la sorpresa.
Ho allestito il piano nell'agorà della classe e poi, quando sono riuscito a farli sedere, ho cercato di parlare. Ma non c'era attenzione. La mattina il terremoto non si calma con facilità. Allora ho messo le mani si tasti. Un re maggiore con dei tremoli. Una folata di vento magico.
Le voci scemano. Scende un silenzio e la musica si infiltra. I loro occhi bellissimi si voltano. Ora ci siamo.
Parlo mentre le mie mani suscitano un vento leggero con accordi aperti (incidono sull'umore lasciandolo in attesa...):
- Abbiamo passato un anno importante, lungo e bello. Anche difficile. Siamo cresciuti, abbiamo imparato tante cose. Vorrei che stamani ci scambiassimo un regalo. Io suonerò per voi fino alla ricreazione e voi scriverete un testo, un testo come preferite, ispirati dalla mia musica.
Accettano. Prendono i quaderni.
Io inizio a viaggiare, percorro le geografie di un anno importante come se fossero le tappe di un itinerario dentro una mappa fatta di emozioni, incontri, scontri, tentativi, perdite e conquiste. Loro non lo sanno ma mi sto congedando. Ogni anno arrivo a questo maledetto punto in cui l'essere precario mi distrugge, sento di aver costruito qualcosa (bene o male non so) e poi il futuro incerto mi rende impossibile promettere a me e a loro che a settembre ci sarò di nuovo, ci saremo di nuovo. Che andremo avanti assieme.
Suonavo e dentro di me sentivo di carezzare uno per uno i loro cuori, portarmene un ricordo con me. Il mio è un lavoro, non una missione. Ma è un mestiere che lega fortemente, che agisce sulle emozioni e sugli affetti. Non è facile mantenere distanze equilibrate. E forse non voglio nemmeno che sia così.
La musica ha sollevato la nostra classe nel cielo, sopra le nuvole, verso un orizzonte che deve essere il loro, non il mio. Un insegnante deve indicare l'orizzonte ai suoi allievi. E lasciare che essi abbiano strumenti per raggiungerlo come meglio credono.
Quando mi hanno portato i loro testi, li ho letti accompagnandoli con la musica. Non vedevo gli errori, non mi infastidivano le incongruenze sintattiche. Era il loro regalo. Ed era bellissimo così. La mutevolezza della musica, i vari passaggi si sono trasformati in un cangiante rifluire di parole, immagini. A volte persino in un torrente di non senso che mi ha commosso. C'erano pirati, fuochi notturni, cieli stellati, c'era il vento (che è il mio elemento principe), la foresta incantata, il sole, la tristezza e l'allegria, la paura, la dolcezza.
Quella fatica di parole mi ha abbracciato, mi ha portato di nuovo nel cielo indicandomi un orizzonte, stavolta tutto mio. Perché la mia inesperienza di insegnante ha bisogno di evolvere e nessuno più dei bambini mi può indicare la via.
- Che bella sorpresa Maestro.
- Che bel regalo bambini, grazie. - Li ho abbracciati alla fine di ogni lettura - Ma la sorpresa vera arriverà dopo ricreazione!
Allora di nuovo è scoppiato il terremoto per sapere chi o che cosa sarebbe venuto o avvenuto. Ma io zitto come un lamantino dell'acquario di Genova.
Passata la ricreazione - eravamo ancora in giardino - è giunta la sorpresa. Elisa, la cantante del gruppo di cui faccio parte, gli Actias Luna, è venuta a scuola. Mi ha fatto questo regalo immenso. L'avevamo progettato da tempo, ha fatto un cambio turbo a lavoro ed è venuta da Pisa proprio per fare loro una sorpresa. Sanno che suono in un gruppo ed hanno ascoltato qualche nostro pezzo. Soprattutto sono innamorati di una canzone 'Sebastiano', sulla quale abbiamo lavorato per parlare di discriminazione e pregiudizio. Nessun tema come la comprensione della diversità mi accompagna da sempre. La canzone parla di un fatto di cronaca: un bambino effeminato che i compagni prendevano in giro, si lascia morire nella neve credendo di potersi addormentare e risvegliare in un mondo migliore. La storia e la musica della canzone hanno scioccato i bambini a tal punto che varie volte mi hanno fatto domande volendola riascoltare.
Elisa era venuta proprio per questo ma non solo.
L'hanno accolta, anzi! Assaltata.
Elisa è una persona delicata, emana una luce soffusa e avvolgente. Vederla alle prese con quella selva di emozioni irruente è stato bellissimo. Si avvicinavano gridando, curiosi, colmi di energie e poi, mentre lei rispondeva sottovoce, a volte con una pausa, si calmavano e si quietavano.
Insomma, siamo saliti in classe e ci siamo sistemati. Hanno creato uno stipatissimo golfo mistico a mezzaluna intorno al piano e alla cantante. C'era anche Giulia, la mia meravigliosa collega di classe, con la quale ho condiviso un anno professionale ed umano importante e dalla quale ho imparato tanto. Ero felice che ci fosse. Anche se sapeva di questa sorpresa, il regalo era anche per lei, per esprimerle riconoscenza, per festeggiare assieme. Giulia ha ali potenti per volare, deve solo scoprirlo. Sta già volando alto e i bambini Le devono tantissimo. Spesso, entrando in classe sul cambio dell'ora, li ho visti navigare altissimi verso le mete complesse della matematica e delle Scienze, danzare come meteore nello spazio multiforme della geografia. Giulia è stata uno specchio per me, il più prezioso. Le sue parole mi hanno calmato quando ero teso, ravvivato quando ero spento, sorretto nel mare mosso, trascinato quando c'era bonaccia. Dovevo dire GRazie a Giulia, anzi, volevo dal profondo del cuore dirLe Grazie. E' importante esprimere riconoscenza.
Desideravo anche che la scuola accogliesse Elisa come un luogo di apertura dovrebbe fare. E così è stato. Sara, la variopinta collega di quinta, la poetessa, Le ha portato una caraffa di acqua con un bicchiere. Sorriso e gentilezza, ciò che basta.
Così, ad inizio anno, Sara accolse me, spaurito precario pieno di insicurezze e paraventi da abbattere. Con un sorriso ed un entusiasmo che solo le persone veramente aperte hanno, Sara è stata la prima luce che mi ha mostrato l'orizzonte bellissimo entro cui avrei vissuto questo viaggio. In quell'orizzonte c'erano i volti di tutti gli altri colleghi che mi avrebbero regalato momenti di umanità e di crescita. Grazie Sara per avermi accolto e per avere accolto chiunque. L'accoglienza è un dono senza eguali. Dona cittadinanza a chi non ce l'ha. Consegna una chiave per avere accesso, ci rende uguali, ci rende preziosi.
Mi è sembrato un gesto bello e prezioso che Sara portasse l'acqua a Elisa.
E' così che le società dovrebbero funzionare. Ripartire da autentici gesti di accoglienza.
Quando la musica è partita, Elisa ha emanato la sua voce. Io conosco quella voce, l'ho protetta e studiata. So che non ha eguali. Esiste solo lei, chiusa fra il diaframma e l'anima della mia amica speciale. Quanto nel parlare Elisa mantiene un tono basso e delicato, tanto quella voce esce nel canto profonda, acuta, potente. Eccola ora cantare Sebastiano, avvincere i bambini, commuovere Giulia. Una voce incantata, come la musica di Orfeo che avvinceva animali, piante e uomini.
Inizialmente intimorita da quel pubblico, Elisa si è sciolta e l'incanto ci ha portato altrove. Sulle cullanti note di una Ninna nanna per calmare le tempeste chiuse dentro i bambini, nell'abbraccio breve e intenso di alcuni haiku, nel fruscio sonoro del bastone della pioggia, fino al roboante frastuono della Metropoli di Beffamburgo.
Abituati al cattivo canto di tanta musica che infesta le nostre orecchie, ascoltare quello strumento meraviglioso, limpido e potente, ci ha fatto proprio bene.
Alla fine, per ricambiare la gentilezza di Elisa, i bambini le hanno donato un disegno, un haiku o una canzone scritta sull'onda della suggestione. Ognuno nel suo modo, ha detto grazie. E io sono stato felice perché martedì mattina lo ricorderò come il giorno dei ringraziamenti, quelli espressi e quelli interiori. Un giorno che vorrei chiamare non 'Giorno del ringraziamento' bensì 'Giorno della riconoscenza'. Io credo che sia bello e doveroso dirsi grazie.
Lo dico ai miei 24 bambini, a Elisabetta, la loro maestra degli scorsi anni che me li ha passati in consegna aiutandomi a comprenderli uno per uno, lo dico a Giulia, mio specchio e mia compagna di viaggio, a Sara che accoglie e illumina, a Tiziana che sorride e mi dona la luce anche se piove, a Carla che come una quercia racchiude sotto la chioma esperienza e storie, a Valentina che ci ha coinvolti in una magia unica di creature meccaniche, aironi e distese di bellezza; a Antonio e Alessandra che sanno sempre sorridere e porgere una mano; a Licia che attendeva di condividere la sua esperienza come un fondale marino segreto, a Daisy che sottovoce ci raggiunge con delicati pensieri e regala dolcezze che profumano di mandorle, a Elena che dialoga e che guida anche nel tempo avverso, a Cristina maga delle scienze e dell'informatica, a Licia riservata ma pronta ad aiutare, a Tamara dalla disponibilità unica, grazie ai giochi di prestigio e magia di Giancarlo. E poi ringrazio di cuore le due colleghe di sostegno, Letizia che regala sguardi trasversali e supporta tenacemente la mia disorganizzazione del mercoledì pomeriggio e Maria, con il suo ascolto costante e la sua delicata mano che sorregge.
Dico grazie ai genitori, coi quali il dialogo è necessario, a volte faticoso, a volte illuminante. Costruire percorsi richiede ascolto e rispetto e ce l'abbiamo fatta.
Ringrazio la scuola pubblica, questa, fatta di gente che lavora, che si confronta, che sopravvive in questi tempi in cui, la grande nave dell'istruzione statale sta andando a picco. Possiamo fare di tutto, tentare il tentabile ma alla fine, anche questa ricchezza e queste professionalità uniche, se le cose non cambiano, andranno a picco.
E di questo non diremo grazie a nessuno.
Elisa è andata via col sorriso.
In classe avevamo tutti il sorriso.
Le sorprese fanno bene.
Ancor di più, essersi detti: 'Grazie'.
Elisa, grazie a te per tutto. Grazie alla tua voce.
Martedì mattina non ce la scorderemo più.
foto by Carlo Alberto MAgli
Viviamo in un sistema complesso che richiede risposte complesse. Nella pratica dell'insegnamento, averne consapevolezza è il punto di partenza.
mercoledì 29 maggio 2013
martedì 21 maggio 2013
Memorie di un maestro precario: stralci di vita scolastica.
Stiamo disegnando durante la ricreazione. Siamo in classe perché piove. C'è chi gioca, chi chiacchiera, chi si lamenta. Io e tre bambini siamo seduti ad un tavolo e disegniamo. C'è Insicurobellamano, Disperataleggera e Beltrattopuntiglioso. Il disegno ci rilassa e il chiasso ossessivo del contesto ci passa sopra, quasi fossimo in una bolla. Ogni tanto qualcuno passa, incuriosito, entra nella bolla, commenta e se ne va.
- Maestro, ma come fai a disegnare così bene?
- Anche tu - dico a Insicurobellamano, per cui gli altri sono sempre più bravi - hai una bellissima mano. Vedrai che diventerai ancora più bravo...
- Sieee, ma te sei super.. io no
- E chi l'ha detto?
- Io, te lo dico io maestro, fidati.
- Ma io ho trentasette (trentotto sigh...) anni e tu nove!
- Dai maestro, come fai a essere così bravo.
Allora Beltrattopuntiglioso lo guarda e annuisce:
- Si allena. Si vede.
- E come ti alleni maestro?
- Disegnando tanto, tanto e tante cose diverse.
- Come ci fai fare te!
- Esatto.
- Ma te sei super, non si diventa come te. - Continua sempre convinto di non valere. E invece vale. Ho pure inventato un premio speciale alla mensa per fargli vincere una penna a china che ho comprato per lui, perché spero che metta a frutto quel meraviglioso tratto che lo distingue da tutti. Lui spera di fare il calciatore, io gli auguro di diventare un grande grafico.
- Ma sei bravissimo - gli ribatte Beltrattopuntiglioso.
- Sieee - e intanto disegna ridendo, con una leggera ironia.
- Ah, io non ce la faccio - si aggiunge sovrappensiero Disperataleggera. E' in uno dei rari momenti in cui si dimentica di offendere qualcuno, di piangere, di vomitare il suo dolore profondissimo. E di litigare con me. Sarebbe bravissima a disegno ma come in tutto quello che fa, dissipa e non porta a termine. Parla sopra pensiero.
- Che vuoi dire? - Le chiede Beltrattopuntiglioso.
- Che io sono naif, so disegnare ma non studio.
Rido.
Rido di cuore.
Si è ricordata perfettamente della lezione di due mesi fa su Ligabue e sul doganiere Russeau, quando ho parlato loro dei pittori naif prima di andare a visitare la mostra in città. Mi piace questa cosa che un concetto così particolare l'abbia colpita e si sia depositato bene nel suo cuore.
- Anche i pittori naif erano bravi, vero maestro? - Mi chiede lei senza staccare gli occhi dal suo disegno frivolo e sconnesso, ma dinamico come quello di un adulto.
- Certo.
- Anche se non avevano studiato tanto, come me! - E ride.
- Ma se tu studi diventerai ancora più brava. - Aggiungo io.
- No maestro, non ce la faccio proprio. Va bene così, non me la prendo.
Che dirle?
Ci sono maestri puntigliosi che l'avrebbero fatta ragionare dicendole che 'no, non puoi accontentarti. Sfrutta questa bella opportunità e dai ricchezza alla tua vita.' Ma la vita le ha riserbato già da piccola le cose più tristi. E lei è sfiduciata.
Ci sono maestri leggeri, che avrebbero riso ancora e ancora magari dicendole 'Sì, brava. Chi si accontenta gode.' Lasciandola nel suo brodo di sfiducia.
Altri ancora magari avrebbero detto: 'Ma tu sei bravissima'. Il che non è vero. Lei sarebbe bravissima ma non lo è. E non amo mentire. Spreca le sue doti e un maestro serio, se ama i suoi allievi, non può mentire riguardo alle doti sprecate.
Invece sono rimasto zitto.
Incapace di aggiungere qualcosa.
Dentro la bolla. E ho pensato quanto mi riesca difficile capire quale sia la cosa giusta da dire o da fare di fronte ai bambini 'perduti', perché lei è così, è perduta, l'abbiamo perduta. In questo anno schizofrenico l'ho abbracciata, l'ho terribilmente rimproverata, le ho parlato e l'ho punita. E, puntualmente, ho sempre avuto chiaro, come in quel momento dentro la bolla dei disegni, che non sapevo precisamente cosa fare.
- Se vuoi, posso insegnarti a allenarti. Sono qui per questo. Magari ci riusciamo, magari no. -
Mi è scappata questa frase, alla fine, dopo il silenzio.
Era l'unica verità che potevo asserire.
- Non occorre maestro, grazie. Va bene così.
- Maestro, ma come fai a disegnare così bene?
- Anche tu - dico a Insicurobellamano, per cui gli altri sono sempre più bravi - hai una bellissima mano. Vedrai che diventerai ancora più bravo...
- Sieee, ma te sei super.. io no
- E chi l'ha detto?
- Io, te lo dico io maestro, fidati.
- Ma io ho trentasette (trentotto sigh...) anni e tu nove!
- Dai maestro, come fai a essere così bravo.
Allora Beltrattopuntiglioso lo guarda e annuisce:
- Si allena. Si vede.
- E come ti alleni maestro?
- Disegnando tanto, tanto e tante cose diverse.
- Come ci fai fare te!
- Esatto.
- Ma te sei super, non si diventa come te. - Continua sempre convinto di non valere. E invece vale. Ho pure inventato un premio speciale alla mensa per fargli vincere una penna a china che ho comprato per lui, perché spero che metta a frutto quel meraviglioso tratto che lo distingue da tutti. Lui spera di fare il calciatore, io gli auguro di diventare un grande grafico.
- Ma sei bravissimo - gli ribatte Beltrattopuntiglioso.
- Sieee - e intanto disegna ridendo, con una leggera ironia.
- Ah, io non ce la faccio - si aggiunge sovrappensiero Disperataleggera. E' in uno dei rari momenti in cui si dimentica di offendere qualcuno, di piangere, di vomitare il suo dolore profondissimo. E di litigare con me. Sarebbe bravissima a disegno ma come in tutto quello che fa, dissipa e non porta a termine. Parla sopra pensiero.
- Che vuoi dire? - Le chiede Beltrattopuntiglioso.
- Che io sono naif, so disegnare ma non studio.
Rido.
Rido di cuore.
Si è ricordata perfettamente della lezione di due mesi fa su Ligabue e sul doganiere Russeau, quando ho parlato loro dei pittori naif prima di andare a visitare la mostra in città. Mi piace questa cosa che un concetto così particolare l'abbia colpita e si sia depositato bene nel suo cuore.
- Anche i pittori naif erano bravi, vero maestro? - Mi chiede lei senza staccare gli occhi dal suo disegno frivolo e sconnesso, ma dinamico come quello di un adulto.
- Certo.
- Anche se non avevano studiato tanto, come me! - E ride.
- Ma se tu studi diventerai ancora più brava. - Aggiungo io.
- No maestro, non ce la faccio proprio. Va bene così, non me la prendo.
Che dirle?
Ci sono maestri puntigliosi che l'avrebbero fatta ragionare dicendole che 'no, non puoi accontentarti. Sfrutta questa bella opportunità e dai ricchezza alla tua vita.' Ma la vita le ha riserbato già da piccola le cose più tristi. E lei è sfiduciata.
Ci sono maestri leggeri, che avrebbero riso ancora e ancora magari dicendole 'Sì, brava. Chi si accontenta gode.' Lasciandola nel suo brodo di sfiducia.
Altri ancora magari avrebbero detto: 'Ma tu sei bravissima'. Il che non è vero. Lei sarebbe bravissima ma non lo è. E non amo mentire. Spreca le sue doti e un maestro serio, se ama i suoi allievi, non può mentire riguardo alle doti sprecate.
Invece sono rimasto zitto.
Incapace di aggiungere qualcosa.
Dentro la bolla. E ho pensato quanto mi riesca difficile capire quale sia la cosa giusta da dire o da fare di fronte ai bambini 'perduti', perché lei è così, è perduta, l'abbiamo perduta. In questo anno schizofrenico l'ho abbracciata, l'ho terribilmente rimproverata, le ho parlato e l'ho punita. E, puntualmente, ho sempre avuto chiaro, come in quel momento dentro la bolla dei disegni, che non sapevo precisamente cosa fare.
- Se vuoi, posso insegnarti a allenarti. Sono qui per questo. Magari ci riusciamo, magari no. -
Mi è scappata questa frase, alla fine, dopo il silenzio.
Era l'unica verità che potevo asserire.
- Non occorre maestro, grazie. Va bene così.
lunedì 20 maggio 2013
Ferox qui detrahit: Il teatro oscillante. Memoria e recupero. La rigenerazione.
E' tempo di buon teatro.
In un momento di deriva pressoché totale su scala mondiale, quando le arti e la cultura precipitano e dove assistiamo alla celebrazione immeritata di pseudo-artisti pop come Damien Hirst, il teatro va in controtendenza.
Non tutto il teatro, s'intenda. Si vedono anche in quel frangente cose brutte, cose trite e ritrite. E, a dirla tutta, anche in quel teatro di ricerca o presunto tale, che ha l'ambizione di sperimentare, la fila dei disastri da citare sarebbe lunga.
Ci sono spettacolini furbetti di microcompagnie ben piazzate e alla moda che sfornano 30 minuti scarsi di stranezze omologate; consociamo registi grotowskiani che tengono i sandali anche se ci sono glaciazioni in corso e ripetono da anni la solita zuppa di tecniche cristallizzate; si acclamano presunti geni del momento, le Emme Dante che vorrebbero sembrare uterine e risultano fastidiosamente artificiose; in un'inutile revival del periodo beat, gruppi dedicati all'azione pura (che teatro non è, diciamolo!) cantano ispirati i versi di Ginsberg con facce permeate da un'insopportabile estasi (che hanno da ridere sempre così?) frammista ad isteria pseudo orientale... non se ne può più.
In quei casi, se quella è la ricerca, ben venga il taglio dei fondi.
Smettete di cercare perché state cercando male o fate finta.
Ma poi c'è il buon teatro.
C'è il memorabile Flauto Magico ricreato dalla grazia intelligente e limpida di Peter Brook, c'è una Tempesta shakespeariana rivisitata e ri-ambientata nella bella 'Miranda' di Oskaras Korsunovas, ci sono momenti di alta poesia nel teatro filosofico di Lucilla Giagnoni dove l'apocalisse di Giovanni e l'Amleto si incontrano alla luce di riletture intriganti...
Poi c'è un teatro sommerso, un bellissimo teatro che pochi conoscono. Non è teatro amatoriale, nemmeno di professionisti anche se ha più a che fare con il secondo che con il primo.
Ho la fortuna di frequentare una di queste realtà da ormai dodici anni. Parlo di Teatro InBiLiKo.
Oggi ho assistito ad una loro performance nella sala rossa del teatro Politeama. Titolo del lavoro 'La rigenerazione'. Si trattava di una dimostrazione di lavoro, una sorta di risultato finale di un laboratorio annuale. In verità abbiamo assistito ad un vero e proprio spettacolo.
Accolti dal sorriso ospitale di attori e attrici vestiti di bianco, siamo entrati in una girandola di canti, frastuoni e silenzi. Azioni e narrazioni legate a memorie specifiche si sono concatenate e richiamate passando di continuo dalla suggestione all'evocazione, sempre in un serrato rapporto fra voce e azione, gesto e pausa. Si legge impegno e precisione, un gran coraggio nel mettersi in gioco, il mix speziato di idiomi e lingue: dal toscano di molti al campano, fino ad uno struggente pugliese garganico che intona canti alla vergine mentre un roboante, crescente Jacopone da Todi crea effetti di distorsione. E poi la lingua inglese che sposta l'asse in una dimensione altra, estraniante eppure necessaria all'evento.
Spiegare 'La rigenerazione' non è facile eppure, chiunque vedesse questo breve e simmetrico spettacolo di candore, troverebbe un suo sentiero, una memoria utile che riaffiora, la verità della commozione per quegli istanti che sono stati 'allora', che segnano ma che si dispongono quasi asetticamente dietro una coltre di effetti di disturbo. Recuperarli significa andare oltre la paura, la vertigine, il senso di disagio, un solleticante assalto di attriti. Gli attori citano le loro memorie, le fissano pur sottoposti ad onde magnetiche che deformano, alterano, spezzano.
Si ride, ci si commuove, si osserva rapiti dai corpi e dalle voci.
Ognuno che osserva corrisponde ad un ognuno che agisce.
E questa magia, potente e veritiera, è il segnale che il grande teatro, il bel teatro, sta anche nella ricerca ed esiste, palpita, nonostante tutto.
Grazie Teatro InBiLiKo.
Finalmente un luogo altro dove sentirsi piacevolmente scomodi.
In un momento di deriva pressoché totale su scala mondiale, quando le arti e la cultura precipitano e dove assistiamo alla celebrazione immeritata di pseudo-artisti pop come Damien Hirst, il teatro va in controtendenza.
Non tutto il teatro, s'intenda. Si vedono anche in quel frangente cose brutte, cose trite e ritrite. E, a dirla tutta, anche in quel teatro di ricerca o presunto tale, che ha l'ambizione di sperimentare, la fila dei disastri da citare sarebbe lunga.
Ci sono spettacolini furbetti di microcompagnie ben piazzate e alla moda che sfornano 30 minuti scarsi di stranezze omologate; consociamo registi grotowskiani che tengono i sandali anche se ci sono glaciazioni in corso e ripetono da anni la solita zuppa di tecniche cristallizzate; si acclamano presunti geni del momento, le Emme Dante che vorrebbero sembrare uterine e risultano fastidiosamente artificiose; in un'inutile revival del periodo beat, gruppi dedicati all'azione pura (che teatro non è, diciamolo!) cantano ispirati i versi di Ginsberg con facce permeate da un'insopportabile estasi (che hanno da ridere sempre così?) frammista ad isteria pseudo orientale... non se ne può più.
In quei casi, se quella è la ricerca, ben venga il taglio dei fondi.
Smettete di cercare perché state cercando male o fate finta.
Ma poi c'è il buon teatro.
C'è il memorabile Flauto Magico ricreato dalla grazia intelligente e limpida di Peter Brook, c'è una Tempesta shakespeariana rivisitata e ri-ambientata nella bella 'Miranda' di Oskaras Korsunovas, ci sono momenti di alta poesia nel teatro filosofico di Lucilla Giagnoni dove l'apocalisse di Giovanni e l'Amleto si incontrano alla luce di riletture intriganti...
Poi c'è un teatro sommerso, un bellissimo teatro che pochi conoscono. Non è teatro amatoriale, nemmeno di professionisti anche se ha più a che fare con il secondo che con il primo.
Ho la fortuna di frequentare una di queste realtà da ormai dodici anni. Parlo di Teatro InBiLiKo.
Oggi ho assistito ad una loro performance nella sala rossa del teatro Politeama. Titolo del lavoro 'La rigenerazione'. Si trattava di una dimostrazione di lavoro, una sorta di risultato finale di un laboratorio annuale. In verità abbiamo assistito ad un vero e proprio spettacolo.
Accolti dal sorriso ospitale di attori e attrici vestiti di bianco, siamo entrati in una girandola di canti, frastuoni e silenzi. Azioni e narrazioni legate a memorie specifiche si sono concatenate e richiamate passando di continuo dalla suggestione all'evocazione, sempre in un serrato rapporto fra voce e azione, gesto e pausa. Si legge impegno e precisione, un gran coraggio nel mettersi in gioco, il mix speziato di idiomi e lingue: dal toscano di molti al campano, fino ad uno struggente pugliese garganico che intona canti alla vergine mentre un roboante, crescente Jacopone da Todi crea effetti di distorsione. E poi la lingua inglese che sposta l'asse in una dimensione altra, estraniante eppure necessaria all'evento.
Spiegare 'La rigenerazione' non è facile eppure, chiunque vedesse questo breve e simmetrico spettacolo di candore, troverebbe un suo sentiero, una memoria utile che riaffiora, la verità della commozione per quegli istanti che sono stati 'allora', che segnano ma che si dispongono quasi asetticamente dietro una coltre di effetti di disturbo. Recuperarli significa andare oltre la paura, la vertigine, il senso di disagio, un solleticante assalto di attriti. Gli attori citano le loro memorie, le fissano pur sottoposti ad onde magnetiche che deformano, alterano, spezzano.
Si ride, ci si commuove, si osserva rapiti dai corpi e dalle voci.
Ognuno che osserva corrisponde ad un ognuno che agisce.
E questa magia, potente e veritiera, è il segnale che il grande teatro, il bel teatro, sta anche nella ricerca ed esiste, palpita, nonostante tutto.
Grazie Teatro InBiLiKo.
Finalmente un luogo altro dove sentirsi piacevolmente scomodi.
sabato 18 maggio 2013
Memorie di un maestro precario: bambini fusi, maestri fusi.
La sto osservando da diversi minuti. E' l'ora di ricreazione. Parla da sola, fa anche dei versi, del tutto incurante del mondo che la circonda e di me che la osservo. Mi avvicino:
- Ehi, cosa fai?
- Sì, lo so maestro che parlo da sola. Ma sono cose personali...
Si allontana danzando e rimango interdetto.
- Prendimi in collo maestro! - A chiedermelo è il piccolo playboy della classe. In altezza si trova a combattere con un contesto di giganti ma è un furbo, sa di piacere.
Lo prendo in collo, è leggerissimo.
- Guardate ragazzi! - grida agli altri - E ricordatevelo. Io dominerò il mondo come il maestro!
Lo metto a terra e a tempo di hip hop (segue un corso di danza ed è bravissimo) se ne va.
Rimango interdetto.
- Maestro chi è questo Stefano a cui stai scrivendo un messaggio col cellulare? - Mi chiede a ricreazione la bambina-cozza che mi spia alle spalle.
- Un mio amico insegnante.. - Poi mi blocco e la squadro malissimo- e te perché non ti fa gli affaracci tuoi, curiosona?
- Ma dai, io sono la tua segretaria!
- Pussa via, lasciami stare!
Se ne va sbofonchiando : - Ragazzi qua se non finisce la scuola si va tutti di fuori!
Rimango interdetto col cellulare in mano. Giuro che è l'unico messaggio che ho spedito, durante la ricreazione, in un anno di scuola.
Arrivo a scuola presto. Trovo la mia petulante, fantastica segretaria di nove anni che sta tenendo banco. E' loquace come un mercato magrebino.
- Maestrrooo... maestrinooo mio! Sai, ho fatto come dici tu.
- Cioè?
- Ho brontolato i miei genitori!
Mi sento morire. Ripercorro in un secondo giorni e giorni di discussioni. No, non le ho mai detto di brontolare i suoi genitori.
- E io ti avrei detto di fare questo?
- Senti - e mi si affianca con complicità afferrandomi a braccetto - Sai quando l'altro giorno ci dicevi che la televisione ci fa male? Che almeno a tavola dovremmo spegnerla e parlare insieme coi genitori e i fratelli?
- Sì!
- Ieri babbo ha provato ad accenderla a cena e io subito l'ho sgriato: ah no! Gli ho gridato! Il maestro ci ha detto che non si guarda la televisione a cena!
- Ma io...veramente....
- Ah, vedessi maestro. L'ha spenta subito.
- Mi odieranno i tuoi genitori.
- Ma no, no! Ho fatto bene.
- Povero babbo e si è arrabbiato?
- Si è arrabbiato quello lì!!! - ride di gusto - Ma stai scherzando? Quello fa come dico io!
Si allontana. Rimango basito.
- Maestro, che si fa stamani?
- Ora faremo un po' di grammatica.
- Oh nooo .... - poi vede la mia faccia truce e ride imbarazzato ... - oh nooo, solo un po'! Volevo farla tutta la mattina...io ... la grammatica.
- Bambini, gli Egizi erano politeisti e credevano in migliaia di divinità! -
- Sì, oh, migliaia e che erano? Ma come facevano a pregarle tutte?
Silenzio. Lo squadro malissimo e si zittisce.
- Bambini, sapete che differenza c'è fra cultura e intelligenza?
Si sperticano nelle più svariate ipotesi ma non colgono nel segno.
Spiego loro che l'intelligenza è una cosa multiforme, un modo di capire il mondo che abbiamo tutti. Che la cultura è ciò che apprendiamo, è il sapere, il saper fare. Che l'una serve all'altra, che la cultura allena l'intelligenza. Son due ruote che si azionano una con l'altra...
- Maestro, ma io sono intelligente?
- Certo! - poi penso che mi ha fatto tribolare disperatamente per un anno intero. Che è intelligentissima ma anche oppositiva, svogliatella, provocatoria - Sei intelligentissima ma poco colta!
- E allora?
- Allora allena quella testa meravigliosa che hai!
Mi guarda, riflette. Annuisce:
- Mah, mi sa che non ce la posso fare.
- E perchè no?
- Stanchezza.
Le sorrido. Basito.
- Ehi, cosa fai?
- Sì, lo so maestro che parlo da sola. Ma sono cose personali...
Si allontana danzando e rimango interdetto.
- Prendimi in collo maestro! - A chiedermelo è il piccolo playboy della classe. In altezza si trova a combattere con un contesto di giganti ma è un furbo, sa di piacere.
Lo prendo in collo, è leggerissimo.
- Guardate ragazzi! - grida agli altri - E ricordatevelo. Io dominerò il mondo come il maestro!
Lo metto a terra e a tempo di hip hop (segue un corso di danza ed è bravissimo) se ne va.
Rimango interdetto.
- Maestro chi è questo Stefano a cui stai scrivendo un messaggio col cellulare? - Mi chiede a ricreazione la bambina-cozza che mi spia alle spalle.
- Un mio amico insegnante.. - Poi mi blocco e la squadro malissimo- e te perché non ti fa gli affaracci tuoi, curiosona?
- Ma dai, io sono la tua segretaria!
- Pussa via, lasciami stare!
Se ne va sbofonchiando : - Ragazzi qua se non finisce la scuola si va tutti di fuori!
Rimango interdetto col cellulare in mano. Giuro che è l'unico messaggio che ho spedito, durante la ricreazione, in un anno di scuola.
Arrivo a scuola presto. Trovo la mia petulante, fantastica segretaria di nove anni che sta tenendo banco. E' loquace come un mercato magrebino.
- Maestrrooo... maestrinooo mio! Sai, ho fatto come dici tu.
- Cioè?
- Ho brontolato i miei genitori!
Mi sento morire. Ripercorro in un secondo giorni e giorni di discussioni. No, non le ho mai detto di brontolare i suoi genitori.
- E io ti avrei detto di fare questo?
- Senti - e mi si affianca con complicità afferrandomi a braccetto - Sai quando l'altro giorno ci dicevi che la televisione ci fa male? Che almeno a tavola dovremmo spegnerla e parlare insieme coi genitori e i fratelli?
- Sì!
- Ieri babbo ha provato ad accenderla a cena e io subito l'ho sgriato: ah no! Gli ho gridato! Il maestro ci ha detto che non si guarda la televisione a cena!
- Ma io...veramente....
- Ah, vedessi maestro. L'ha spenta subito.
- Mi odieranno i tuoi genitori.
- Ma no, no! Ho fatto bene.
- Povero babbo e si è arrabbiato?
- Si è arrabbiato quello lì!!! - ride di gusto - Ma stai scherzando? Quello fa come dico io!
Si allontana. Rimango basito.
- Maestro, che si fa stamani?
- Ora faremo un po' di grammatica.
- Oh nooo .... - poi vede la mia faccia truce e ride imbarazzato ... - oh nooo, solo un po'! Volevo farla tutta la mattina...io ... la grammatica.
- Bambini, gli Egizi erano politeisti e credevano in migliaia di divinità! -
- Sì, oh, migliaia e che erano? Ma come facevano a pregarle tutte?
Silenzio. Lo squadro malissimo e si zittisce.
- Bambini, sapete che differenza c'è fra cultura e intelligenza?
Si sperticano nelle più svariate ipotesi ma non colgono nel segno.
Spiego loro che l'intelligenza è una cosa multiforme, un modo di capire il mondo che abbiamo tutti. Che la cultura è ciò che apprendiamo, è il sapere, il saper fare. Che l'una serve all'altra, che la cultura allena l'intelligenza. Son due ruote che si azionano una con l'altra...
- Maestro, ma io sono intelligente?
- Certo! - poi penso che mi ha fatto tribolare disperatamente per un anno intero. Che è intelligentissima ma anche oppositiva, svogliatella, provocatoria - Sei intelligentissima ma poco colta!
- E allora?
- Allora allena quella testa meravigliosa che hai!
Mi guarda, riflette. Annuisce:
- Mah, mi sa che non ce la posso fare.
- E perchè no?
- Stanchezza.
Le sorrido. Basito.
lunedì 13 maggio 2013
Il senso di un compleanno. Le tappe.
Era martedì quando sono nato, il 13 maggio del 1975.
Maggio mi regalò il segno del toro e dunque il dominio sensuale di Venere. Il giorno della settimana mi segnò con la spada di Marte e mi consegnò ad una vita guerresca.
La prima cosa che ho disegnato sono state balene e meduse.
A due anni ho tentato di strozzare una rondine ma i miei genitori, che credevano che i bambini fossero buoni (ma da allora non più), la salvarono.
A quattro anni ho deciso che disegnare era una roba fantastica.
A cinque anni i miei amici mi guardavano in cagnesco perché li costringevo a disegnare.
A sei anni è iniziata la scuola ed è finita la pacchia. Il giorno del mio sesto compleanno spararono al Papa ed io ero incazzatissimo perché tutti davano più importanza a lui che a me.
A sei anni e mezzo, visto che strimpellavo orrendamente il piano di mia nonna, mi costrinsero a studiare musica.
A sette anni è nato mio fratello Francesco:ero felicissimo. Ho scelto io il suo nome.
A otto anni, grazie alla mia maestra, ho scoperto la meraviglia dello scrivere.
A nove anni ho capito che qualcosa non andava. Che il mio modo di essere non quadrava del tutto col mondo.
A undici anni sono diventato uomo.
Sempre a undici anni ho composto la mia prima musica, alterando di un grado un esercizio del bayer.
A dodici anni vinsi un concorso per un libro che avevo scritto e mi operai di appendicite così che non potei ritirare il premio.
A tredici anni ero nel casino più totale e non capivo molto.
A tredici anni soffrivo come un cane.
A quattordici anni ho iniziato il liceo Majorana ed è partita la fase più difficile della mia vita. Non tornerei a quegli anni infami nemmeno se mi pagassero.
A quindici anni mi sono rinchiuso in una stanza col mio pianoforte, le matite e la penna e ci sono rimasto per tanto. Il mondo esterno mi spaventava. Ebbi bisogno di aiuto.
La mia adolescenza non mi è piaciuta molto.
A diciassette ani ho capito che non quadrare del tutto col mondo fa soffrire ma ci si può fare. Avevo tantissimi capelli.
A diciannove anni ho capito quello che già sapevo. Ma dovevo dirlo. C'è chi è fatto per il sole e chi per luna. Stavo dalla parte della luna. Iniziai a perdere i capelli. Mio padre e mia madre e carissimi amici mi sollevarono verso il cielo.
A diciannove anni ho iniziato l'Università. Anni meravigliosi, la mia rinascita.
A venti anni ho intrapreso lo studio dell'arpa celtica.
A ventiquattro anni mi sono laureato la prima volta, in storia dell'arte. La mia band nasceva quello stesso anno e la musica mi abbracciava definitivamente.
A ventisei anni ho vinto il dottorato e mi sembrava quasi di essere bravo. In quell'anno ho conosciuto l'amore ed è ancora qua, con me, nel tempo avverso e in quello favorevole. La mia terza rinascita.
Avevo ventisette anni quando mia nonna paterna è divenuta cieca. Iniziai allora a scrivere la città rosa.
A trentanni iniziai a capire che in Italia il merito non aveva molto senso e che le cose si mettevano male.
A trentadue anni, dopo dieci anni di bellissimo e mal retribuito lavoro didattico nei musei con bambini e adulti, ho mandato a quel paese una direttrice dispotica e scorretta. Mi sono iscritto di nuovo all'università.
A trentatre anni, mentre studiavo, sono stato insegnante di sostegno nella scuola superiore, ed è stato meraviglioso.
A trentaquattro anni mi sono laureato per la seconda volta e ho iniziato la mia attuale professione di maestro nella scuola primaria. Quell'anno è morto mio nonno.
A trentasei anni, grazie a mio padre e mia madre, ho fatto un mutuo ed ho comprato una casa in un posto bellissimo.
A trentasette anni ho pubblicato il mio primo libro!
Oggi compio 38 anni. Un bel traguardo. Mio fratello mi ha regalato una nipote, Lidia.
Mi guardo allo specchio. Testa rasata per ingentilire la calvizie, barba con parecchi peli bianchi (ma molto affascinanti, direi). Un cd con la mia band in uscita, lo spettro della disoccupazione estiva alle porte, l'amore vicino, il bene di tante relazioni che mi circondano. Fra queste, due nonne formidabili simili a querce.
Grazie! Grazie 13 maggio per avermi consegnato alla vita. A questo gran fluire contrastato. Ti ringrazio per le nuvole che mi accompagnano da sempre, come balene fluttuanti. A ricordarmi che un cielo azzurro, terso e limpido, non è bello se non è attraversato dal transito bianco dei nostri sogni e delle nostre battaglie. Le nuvole-balene! Le stesse che disegnavo da bambino.
Sono nato sotto il segno di Venere e sotto quello di Marte, non me lo scordo.
La passione l'alimento e se c'è da combattere, io vado.
Ai miei capelli andati, alla parte della luna che ancora è in ombra, alla bellezza delle persone incontrate, al mio amore.
A mia nipote Lidia, che rende questo compleanno diverso, più profondo di tutti gli altri.
Auguri Riccardo, ti voglio proprio bene.
Maggio mi regalò il segno del toro e dunque il dominio sensuale di Venere. Il giorno della settimana mi segnò con la spada di Marte e mi consegnò ad una vita guerresca.
La prima cosa che ho disegnato sono state balene e meduse.
A due anni ho tentato di strozzare una rondine ma i miei genitori, che credevano che i bambini fossero buoni (ma da allora non più), la salvarono.
A quattro anni ho deciso che disegnare era una roba fantastica.
A cinque anni i miei amici mi guardavano in cagnesco perché li costringevo a disegnare.
A sei anni è iniziata la scuola ed è finita la pacchia. Il giorno del mio sesto compleanno spararono al Papa ed io ero incazzatissimo perché tutti davano più importanza a lui che a me.
A sei anni e mezzo, visto che strimpellavo orrendamente il piano di mia nonna, mi costrinsero a studiare musica.
A sette anni è nato mio fratello Francesco:ero felicissimo. Ho scelto io il suo nome.
A otto anni, grazie alla mia maestra, ho scoperto la meraviglia dello scrivere.
A nove anni ho capito che qualcosa non andava. Che il mio modo di essere non quadrava del tutto col mondo.
A undici anni sono diventato uomo.
Sempre a undici anni ho composto la mia prima musica, alterando di un grado un esercizio del bayer.
A dodici anni vinsi un concorso per un libro che avevo scritto e mi operai di appendicite così che non potei ritirare il premio.
A tredici anni ero nel casino più totale e non capivo molto.
A tredici anni soffrivo come un cane.
A quattordici anni ho iniziato il liceo Majorana ed è partita la fase più difficile della mia vita. Non tornerei a quegli anni infami nemmeno se mi pagassero.
A quindici anni mi sono rinchiuso in una stanza col mio pianoforte, le matite e la penna e ci sono rimasto per tanto. Il mondo esterno mi spaventava. Ebbi bisogno di aiuto.
La mia adolescenza non mi è piaciuta molto.
A diciassette ani ho capito che non quadrare del tutto col mondo fa soffrire ma ci si può fare. Avevo tantissimi capelli.
A diciannove anni ho capito quello che già sapevo. Ma dovevo dirlo. C'è chi è fatto per il sole e chi per luna. Stavo dalla parte della luna. Iniziai a perdere i capelli. Mio padre e mia madre e carissimi amici mi sollevarono verso il cielo.
A diciannove anni ho iniziato l'Università. Anni meravigliosi, la mia rinascita.
A venti anni ho intrapreso lo studio dell'arpa celtica.
A ventiquattro anni mi sono laureato la prima volta, in storia dell'arte. La mia band nasceva quello stesso anno e la musica mi abbracciava definitivamente.
A ventisei anni ho vinto il dottorato e mi sembrava quasi di essere bravo. In quell'anno ho conosciuto l'amore ed è ancora qua, con me, nel tempo avverso e in quello favorevole. La mia terza rinascita.
Avevo ventisette anni quando mia nonna paterna è divenuta cieca. Iniziai allora a scrivere la città rosa.
A trentanni iniziai a capire che in Italia il merito non aveva molto senso e che le cose si mettevano male.
A trentadue anni, dopo dieci anni di bellissimo e mal retribuito lavoro didattico nei musei con bambini e adulti, ho mandato a quel paese una direttrice dispotica e scorretta. Mi sono iscritto di nuovo all'università.
A trentatre anni, mentre studiavo, sono stato insegnante di sostegno nella scuola superiore, ed è stato meraviglioso.
A trentaquattro anni mi sono laureato per la seconda volta e ho iniziato la mia attuale professione di maestro nella scuola primaria. Quell'anno è morto mio nonno.
A trentasei anni, grazie a mio padre e mia madre, ho fatto un mutuo ed ho comprato una casa in un posto bellissimo.
A trentasette anni ho pubblicato il mio primo libro!
Oggi compio 38 anni. Un bel traguardo. Mio fratello mi ha regalato una nipote, Lidia.
Mi guardo allo specchio. Testa rasata per ingentilire la calvizie, barba con parecchi peli bianchi (ma molto affascinanti, direi). Un cd con la mia band in uscita, lo spettro della disoccupazione estiva alle porte, l'amore vicino, il bene di tante relazioni che mi circondano. Fra queste, due nonne formidabili simili a querce.
Grazie! Grazie 13 maggio per avermi consegnato alla vita. A questo gran fluire contrastato. Ti ringrazio per le nuvole che mi accompagnano da sempre, come balene fluttuanti. A ricordarmi che un cielo azzurro, terso e limpido, non è bello se non è attraversato dal transito bianco dei nostri sogni e delle nostre battaglie. Le nuvole-balene! Le stesse che disegnavo da bambino.
Sono nato sotto il segno di Venere e sotto quello di Marte, non me lo scordo.
La passione l'alimento e se c'è da combattere, io vado.
Ai miei capelli andati, alla parte della luna che ancora è in ombra, alla bellezza delle persone incontrate, al mio amore.
A mia nipote Lidia, che rende questo compleanno diverso, più profondo di tutti gli altri.
Auguri Riccardo, ti voglio proprio bene.
domenica 12 maggio 2013
A mia madre.
Vorrei consegnare ad uno dei grandi autori della mia vita, Seneca, le parole per dire a mia madre grazie. Le recupero da un testo che mi ha sempre commosso e fatto riflettere, la 'Consolazione alla madre Elvia', che il grande letterato e filosofo scrisse fra il 41 e il 49 d.C. durante il duro esilio in Corsica. Cito il passo iniziale, di una bellezza limpida, ed un passo del 5 paragrafo, che mi sembra terribilmente attuale. Quando si diventa adulti, in un Paese malato come il nostro e quello in cui viveva Seneca, anche il rapporto con le madri assume i toni di un dolente dialogo. Oggi, come allora, un figlio può sentire il bisogno di consolare, paradossalmente, la propria madre per il dolore che essa prova proprio per le sorti sfortunate capitate alla propria progenie.
' Spesso, mamma carissima, ho sentito l'impulso di consolarti, spesso l'ho bloccato. Molti motivi m'incoraggiano a osare: in primo luogo pensavo di liberarmi da ogni pena, se, pur senza poter eliminare le tue lacrime, le avessi almeno asciugate; poi ero certo che sarei meglio riuscito a sollevarti se fossi stato io a risollevarmi per primo; infine temevo che la fortuna, vinta da me, vincesse qualcuno dei miei cari.'
'La nostra condizione è buona al momento della nascita; è colpa nostra se la peggioriamo. La natura ha agito in modo che non ci vuole molto per vivere bene: ognuno è in grado di rendersi felice. Poca importanza hanno le cose esteriori e poco possono in entrambi i sensi: non esaltano il saggio quando vanno bene e non lo abbattono quando vanno male, perché si è sempre sforzato di contare solo su se stesso, di cercare in sé ogni soddisfazione. Ma allora dico di essere un saggio? No, certo. [....]
L'avversa fortuna non annienta nessuno, se non chi ha illuso la buona'
Con le parole di Seneca, mamma, ti abbraccio e ti consolo consolandomi.
Il tempo non ci ha regalato il futuro che avremmo voluto per me. Tu hai fatto di tutto perché il mio futuro arrivasse e ciò che di buono è venuto è soprattutto merito dell'impegno di chi mi ama. Il tempo inclemente che è sceso sul mondo, ha reciso le ali ai sogni di noi figli. Ma resta forte il senso meraviglioso di quello che, dentro e fuori, spiritualmente e materialmente, hai fatto, con mio padre, per tenermi a galla. Oggi ti regalo le nuvole, le nostre nuvole, ricordi?
Ti amo
venerdì 10 maggio 2013
giovedì 9 maggio 2013
Sensibilizzazione e ipersensibilizzazione: sposare le cause senza nuocere alle cause. Il femminicidio,
Chi ha
avuto modo di leggere i miei interventi, non potrà disconoscere il mio sostegno
alle iniziative a favore delle donne, contro la violenza sulle donne. Chi mi
conosce sa quanto il tema mi prema. Sa quanto io mi impegni da anni in favore
di un nuovo modo di liberare la persona dallo schema di genere e soprattutto
può tastare con mano quanto io sostenga un movimento 'di uomini che portino
avanti le rivendicazioni e i diritti delle donne'. Sono convinto infatti che
siamo noi uomini, oggi, a dovere risarcire millenni di prevaricazione
accostandoci alle nostre sorelle, madri, compagne, figlie, amiche, per condurre
con loro e per loro la lotta verso un'effettiva parità che ancora, ovunque, non
esiste.
Con il mio gruppo musicale ho realizzato anni fa un cd, intitolato 'Malefiche',
dedicato interamente ad una ricerca, durata due anni, sul tema della donna e
del maleficio (male facere = esercitare il male).
http://www.actiasluna.it/1/malefiche_visioni_e_pensieri_1948.html
In quel cd
provocatorio, che ci rese sgraditi immediatamente a molti degli ambienti
che contano a Lucca, si rovesciava volutamente il campo semantico del termine
maleficio: esso diveniva ciò che le donne avevano dovuto subire, l'affronto
perpetrato per secoli, da parte di governi, religioni e uomini che le donne le
hanno demonizzate, schiacciate, delegate e, comunque, percepite come entità
sociali subordinate. Una dopo l'altra tornavano dunque a rivendicare una sorta
di rivalsa o di rivincita (nel migliore dei caso un chiarimento), Magdalena,
Vesta, Artemisia Gentileschi, Saffo, Murasaki Shikibu. Donne che per varie
vicissitudini erano state sottoposte al giudizio per aver infranto la norma. E
la norma, da sempre, è la norma degli uomini e mai delle donne.
Dico questo per mettere in chiaro come la penso. Mi schiero dalla parte delle
donne e sostengo le loro battaglie, soprattutto quando sono esenti
dall'insopportabile nevrosi ultrauterina di un certo basso femminismo che,
grazie a dio, non ha nulla a che vedere col grande femminismo che ci ha
indicato la giusta via da percorrere.
Partiamo dunque dalla considerazione che sono dalla parte delle donne, contro
la violenza in senso lato e, specificamente, contro la violenza sulle donne.
Sposo la causa, inevitabilmente, della sensibilizzazione verso il tanto
nominato 'femminicidio' in atto in Italia, i cui dati, ormai all'ordine del
giorno, sono preoccupanti.
Però dico anche: attenzione!
Lo dico ai giornalisti e alla classe dirigente che, come spesso accade, quando
avverte un 'argomento di comodo', ancorché importantissimo come questo, lo fa
proprio e lo riproduce in modo esponenziale per dirottare l'attenzione,
focalizzarla solo lì, soltanto lì, in modo da distrarci anche da altre cose.
Ho contato, ieri sera, all'interno del tg1, ben 6 notizie legate a
donne uccise, scomparse, maltrattate. Episodi terribili di cronaca nera locale
che vanno segnalati ma che, in questa saturazione morbosa, non solo ingolfano
il notiziario ma rischiano, pericolosamente, di far perdere alla delicatissima
urgenza del tema, la sua limpida, mostruosa verità.
Fare cattivo giornalismo è come fare cattiva politica: significa infierire,
significa confondere le acque anziché illuminare le coscienze. Sono certo che
dopo il tg1 di ieri sera non si è creata più coscienza sul tema del
femminicidio (uso questo termine così orribile perché l'abuso di esso è sotto
gli occhi di tutti), bensì si è accresciuto quel morboso senso provinciale di
curiosità, al più si è blandita una sensibilità di superficie. Le notizie hanno
occupato il posto di altre ma hanno disperso il proprio potenziale.
A coronamento di questo senso di vuoto, di non reale volontà di incidere sul
problema, si è espressa la neo ministro per le pari opportunità Josepa Idem
sempre nel corso di uno dei tg nazionali. La povera ministro si è lanciata in
un discorso vuoto, privo di riferimenti se non numerici, dicendo tanto per non
dire nulla. Ha parlato di sinergia (parola insopportabile di comodo estetico), di lavoro incrociato fra ministeri ma in
conclusione ha presentato una cornice vuota.
Il che è preoccupante. Molto
preoccupante.
La percezione, amiche donne e amici uomini, è che dobbiamo sensibilizzarci
seriamente lontano dalla cattiva politica e dal cattivo giornalismo. Attingere
sì alla cronca locale ma per levarci sopra, per leggere i dati su orizzonti
spaventosamente allargati.Solo là, con interventi mirati, puntuali, fatti di competenza
e sobrietà (quella di una Gabbanelli o di uno Jacona, ad esempio) possiamo
sperare di non eccedere per passare in un attimo dal fare il bene di una causa
ad affossarla per sempre.
Un abbraccio alle donne.
Con il mio gruppo musicale ho realizzato anni fa un cd, intitolato 'Malefiche', dedicato interamente ad una ricerca, durata due anni, sul tema della donna e del maleficio (male facere = esercitare il male).
http://www.actiasluna.it/1/malefiche_visioni_e_pensieri_1948.html
In quel cd provocatorio, che ci rese sgraditi immediatamente a molti degli ambienti che contano a Lucca, si rovesciava volutamente il campo semantico del termine maleficio: esso diveniva ciò che le donne avevano dovuto subire, l'affronto perpetrato per secoli, da parte di governi, religioni e uomini che le donne le hanno demonizzate, schiacciate, delegate e, comunque, percepite come entità sociali subordinate. Una dopo l'altra tornavano dunque a rivendicare una sorta di rivalsa o di rivincita (nel migliore dei caso un chiarimento), Magdalena, Vesta, Artemisia Gentileschi, Saffo, Murasaki Shikibu. Donne che per varie vicissitudini erano state sottoposte al giudizio per aver infranto la norma. E la norma, da sempre, è la norma degli uomini e mai delle donne.
Dico questo per mettere in chiaro come la penso. Mi schiero dalla parte delle donne e sostengo le loro battaglie, soprattutto quando sono esenti dall'insopportabile nevrosi ultrauterina di un certo basso femminismo che, grazie a dio, non ha nulla a che vedere col grande femminismo che ci ha indicato la giusta via da percorrere.
Partiamo dunque dalla considerazione che sono dalla parte delle donne, contro la violenza in senso lato e, specificamente, contro la violenza sulle donne.
Sposo la causa, inevitabilmente, della sensibilizzazione verso il tanto nominato 'femminicidio' in atto in Italia, i cui dati, ormai all'ordine del giorno, sono preoccupanti.
Però dico anche: attenzione!
Lo dico ai giornalisti e alla classe dirigente che, come spesso accade, quando avverte un 'argomento di comodo', ancorché importantissimo come questo, lo fa proprio e lo riproduce in modo esponenziale per dirottare l'attenzione, focalizzarla solo lì, soltanto lì, in modo da distrarci anche da altre cose.
Ho contato, ieri sera, all'interno del tg1, ben 6 notizie legate a donne uccise, scomparse, maltrattate. Episodi terribili di cronaca nera locale che vanno segnalati ma che, in questa saturazione morbosa, non solo ingolfano il notiziario ma rischiano, pericolosamente, di far perdere alla delicatissima urgenza del tema, la sua limpida, mostruosa verità.
Fare cattivo giornalismo è come fare cattiva politica: significa infierire, significa confondere le acque anziché illuminare le coscienze. Sono certo che dopo il tg1 di ieri sera non si è creata più coscienza sul tema del femminicidio (uso questo termine così orribile perché l'abuso di esso è sotto gli occhi di tutti), bensì si è accresciuto quel morboso senso provinciale di curiosità, al più si è blandita una sensibilità di superficie. Le notizie hanno occupato il posto di altre ma hanno disperso il proprio potenziale.
A coronamento di questo senso di vuoto, di non reale volontà di incidere sul problema, si è espressa la neo ministro per le pari opportunità Josepa Idem sempre nel corso di uno dei tg nazionali. La povera ministro si è lanciata in un discorso vuoto, privo di riferimenti se non numerici, dicendo tanto per non dire nulla. Ha parlato di sinergia (parola insopportabile di comodo estetico), di lavoro incrociato fra ministeri ma in conclusione ha presentato una cornice vuota.
La percezione, amiche donne e amici uomini, è che dobbiamo sensibilizzarci seriamente lontano dalla cattiva politica e dal cattivo giornalismo. Attingere sì alla cronca locale ma per levarci sopra, per leggere i dati su orizzonti spaventosamente allargati.Solo là, con interventi mirati, puntuali, fatti di competenza e sobrietà (quella di una Gabbanelli o di uno Jacona, ad esempio) possiamo sperare di non eccedere per passare in un attimo dal fare il bene di una causa ad affossarla per sempre.
domenica 5 maggio 2013
Una musica meravigliosa.
Sono un affamato di musica. Ne ascolto tanta, forse troppa. La ascolto e la digerisco, la faccio penetrare, la riascolto anche mille volte se mi piace o se sento che ha da dirmi delle cose. Lascio che permei le mie giornate, che mi ispiri, che mi dica quelle cose che si risvegliano quando un accordo, una melodia oppure un passaggio riescono a fare breccia.
E' davvero ampio l'orizzonte in cui ci si può muovere. Ognuno persegue traiettorie di ascolto e di ricerca. Io, da diversi anni, seguo molte vie anche se quella preferenziale rimane la mia strada maestra: la musica che sfugge il genere, che respinge la definizione, che si sospende e sorprende perché rinnega o, piuttosto, frantuma, scompone e ricompone la tradizione occidentale della musica tonale.
Ecco perché amo tanto autori 'inafferrabili', come Satie e Debussy, come Respighi o Faurè, ed in tempi recenti cantautrici come Kate Bush, Tori Amos e l'inquietante e poetica Joanna Newsom. Per lo stesso motivo mi toccano il cuore le danze rinascimentali, certe melodie nipponiche e cinesi, la buona musica celtica oppure l'incanto del medioevo con i suoi tempi senza tempo, le sue armonie aperte, le inattese aperture senza chiusa.
Vorrei sapere che cosa ne pensate di questa meravigliosa versione orchestrale della Gnosienne n 1 di Satie. Essa esprime un dondolante sospendersi sopra l'abisso, una notte pulsante di bagliori senza definizione, un andamento struggente che oscilla fra incanto e paura. Ecco la musica che mi appartiene.
https://www.youtube.com/watch?v=FLuzdDXXE9w
Memorie di un maestro precario: L'omosessualità spiegata ai bambini.
In questo giorno triste, reso tale non tanto dalle uscite omofobe della Biancofiore quanto dal fatto che, non essendo costei nuova a simili exploits, è stata delegata dal governo Letta alle apri opportunità, rifletto che l'argomento omosessualità è ancora lungi dall'essere digerito. Anzi, su questo argomento i passi da fare sono ancora immensi, qua in Italia soprattutto, ma non solo. Qua ancora si raccontano barzellette pensando che le pratiche affettive o sessuali dei gay siano, in qualche modo, espressione di un'alterazione naturale aberrante. Qua ancora si tollerano in contesti conviviali, termini abominevoli quali finocchio o frocio, o frogio nelle varianti localistiche, checca, 'ricchione: parole per cui non poche persone si sono tolte la vita per il dileggio, la prevaricante cattiveria, l'offensivo sarcasmo che esse contengono.
Ho parlato molto di questo tema coi bambini in questi anni. Spesso ho trovato resistenze iniziali ma è bastato introdurre la riflessione sul concetto di 'pregiudizio', raccontare la storia di quel bambino effeminato che si lasciò morire nella neve per 'risvegliarsi quando il mondo sarebbe stato migliore', per creare subito una situazione di disagio, di attenzione massima, di comprensione dell'orrore che può stare dietro la leggerezza. Sì, perché la leggerezza di una battuta, di una barzelletta, di una tastata all'orecchio sono cose che possono uccidere dentro, soprattutto un bambino.
Voglio raccontarvi una fiaba, una fiaba che invento oggi, in questa tristezza, perché torni a splendere il sole per tutti i bambini e le bambine che saranno uomini e donne omosessuali. Perché è da loro, come dico sempre, dalle loro fondamenta che costruiremo un mondo migliore: anzi, offriremo loro i materiali perché loro costruiscano un mondo migliore del nostro.
- Questa è la storia di una principessa che si innamorò di un'altra principessa.
- Come maestro?
- Avete capito bene.
- Non è possibile. Ci vuole un principe.
- Non c'è. Stavolta la storia va così. Ascoltatemi.
- Maestro che schifo. No, no e poi no: due donne, ti pare?
- Posso procedere? Ascoltate. Poi alla fine direte che schifo se avrete provato schifo. Se no, magari, cambierete opinione. Bene. In un lontano paese, su una collina tonda come una fetta d'anguria, sorgeva un castello bianco come l'avorio. I contadini avevano arato i campi sulla collina in modo così ordinato e preciso, che a guardarla da lontano sembrava fatta di mille pezze di stoffe rigate. Anche il castello era tenuto benissimo, aveva un bel giardino con le aiole fiorite e c'era una grande pulizia. Governava quel paese una brava principessa di nome Ipazia.
- Oh che nome è?
- Un nome antico. Ipazia governava con molta saggezza anche se era giovane. Quando aveva un dubbio, non si vergognava e chiedeva consiglio. E' questa la vera saggezza: saper chiedere consiglio senza aver mai la presunzione di sapere tutto. Ora dovete sapere che Ipazia doveva sposarsi. Così era stabilito dalla legge dei castelli. Un vero castello che si rispetti deve avere un principe ed una principessa che lo governano.
"Dovete sposarvi, principessa!" le diceva il grande consigliere di corte. Ma Ipazia sorrideva e scuoteva la testa.
"Nona ancora, non ancora..." aggiungeva sorridendo.
Dopo l'ennesima insistenza, la principessa acconsentì a conoscere dei pretendenti. Giunse il Principe azzurro, ma Ipazia lo trovò melenso; venne il Principe Rosso, ma le sembrò altezzoso; quello Verde era fissato col cibo vegano e Ipazia pensò che non fosse il caso; il Principino Bianco era biondo e si guardava nello specchio di continuo; quello Nero aveva un modo di fare autoritario e lei amava la gentilezza. Insomma, alla fine, li rimandò tutti a casa.
"Vedete principessa, ora il regno è di nuovo senza un principe" disse il Consigliere.
"Lo so, buon uomo, ma che ci posso fare se quei principi non mi hanno acceso il cuore?"
Ora avvenne che dopo qualche giorno, sulla strada delle rose che correva nella valle sotto la collina, passò un corteo di cavalieri e dame. Trenta carrozze variopinte scorrevano una dietro l'altra. Il messaggero di quel corteo salì al castello per chiedere ospitalità per la notte. Figuratevi voi, bambini, se una persona gentile come Ipazia poteva rifiutare una simile cortesia. Fu così che le trenta carrozze salirono la collina e furono ospitate. Alla testa della corte c'era una principessa, Malvina del reame di Perdilà.
- Oh maestro, ma che nomi hanno queste principesse?
- Ma proprio te, che ti chiami Gualtiero, vuoi sindacare sui nomi?
- Hai ragione.
- Ascolta, ascolta... Malvina era stata scacciata dal suo regno. Un principe autoritario, il Cavaliere Spocchioso, si era presentato per sposarla ma lei lo aveva rifiutato. Allora lui, offeso, pensando che tutte le donne del mondo dovessero cadere ai suoi piedi, mosse guerra al Regno di Perdilà e lo conquistò.
"Ora che ho il tuo regno, sposami!" le aveva gridato ma lei, scuotendo la testa, gli rispose:
"Manco per sogno, brutto maleducato. Avrai pure il mio regno ma non me. " E detto questo, con tutta la sua corte, se ne era andata via .
Ipazia si commosse molto sentendo la storia di Malvina. Inoltre, come la principessa del Regno di Perdilà era entrata nel castello, il suo sorriso, quei capelli rossi come fuoco, il profumo dolcissimo della sua pelle le avevano spalancato il cuore. Ed anche Malvina, piena di gioia nell'essere accolta così cordialmente, si sentì emozionare quando vide le gote rosa di Ipazia, le sue mani gentili, le labbra di fragola e i capelli biondi come il grano.
"Rimani qui!" propose Ipazia a Malvina "Regniamo insieme su questo reame!"
Malvina ci pensò un attimo e poi si sentì riempire di gioia.
" Sovvertiamo le leggi dei castelli. Qua regneranno due principesse!" Esultò Ipazia e il gran Consigliere si sentì morire. Le due principesse non solo regnarono con giustizia, ma erano così innamorate l'una dell'altra che la loro felicità si espandeva intorno, sui campi, sul reame intero, sugli abitanti. Insomma, se già il Castello sulla Collina era stato un luogo bello come pochi, ora lo era ancor di più.
"Dovrete dare un erede al trono " si lamentò un giorno il Consigliere ma Malvina e Ipazia non temevano. Sapevano che un fanciullo era stato abbandonato qualche giorno prima nei campi della valle da una coppia di briganti. Il parroco del paese se ne stava occupando. Lo adottarono e lo fecero crescere con loro, educandolo al rispetto e alla generosità. Un domani lui avrebbe retto le sorti del regno.
Venuti a sapere della storia delle due principesse, i principi scartati si sentirono offesi. Chiamarono in aiuto il Cavaliere Spocchioso e tutti assieme andarono all'assalto del castello. Ma quando arrivarono ai piedi della collina, trovarono tutti i sudditi armati di pentole, vanghe, piccozze e aste ad aiutare i soldati di guardia che mostravano alabarde minacciose.
" Andatevene, le nostre principesse regnano così bene e in così bella armonia, che non abbiamo bisogno di voi!"
Spaventati da tutto quell'armamentario, i principi e il Cavaliere fecero dietrofront e non tornarono mai più.
Ipazia e Malvina regnarono per molti anni e assieme al loro bambino e a tutti i sudditi, vissero felici e contente.
Silenzio
- Allora, ancora ti fa schifo la questione?
- Mmm, non so, ci devo pensare.
- Beh, è già qualcosa.
- Ma Maestro, scusa, ma proprio nessuno di quei principi le era piaciuto? Nemmeno uno? Neanche un pochino?
- No, e sai perchè?
- No che non lo so.
- Perché il cuore di Ipazia, come accade per il cuore di ciascuno di noi, stava aspettando. Aspettava un'emozione così bella e forte capace di aprirlo. E solo una persona poteva farlo, ovvero quella giusta.
- E la persona giusta era Malvina.
- Esatto. Ognuno attende la persona giusta, la cerca, prova varie strade. Ma se non mente a se stesso e segue la strada dove il suo cuore lo porta, la troverà.
- Anche la strada di Malvina doveva incontrare quella di Ipazia.
- Bravo, vedo che hai capito. Non potevano esserci principi per Ipazia o Malvina, i loro cuori erano pronti ad accogliere uno quello dell'altra. Erano nati per seguire regole diverse da quelle che la sciocca legge dei Castelli aveva imposto.
- Che legge stupida.
- Davvero. Può una legge, può una religione, può qualcuno imporci chi amare?
- Nooooo.
- E allora, ora vi chiedo: vi fa ancora schifo la mia storia di una principessa che si innamorò di un'altra principessa?
- No, maestro - dice Lucilla e ha occhi lucidi. A Lucilla piace giocare a calcio e a volte le fanno notare che è un po' maschiaccio. - E' bellissima questa storia.
Ed io abbraccio Lucilla e con lei tutte le persone che, in un domani diverso, governeranno colline di gentilezza e rispetto.
Ho parlato molto di questo tema coi bambini in questi anni. Spesso ho trovato resistenze iniziali ma è bastato introdurre la riflessione sul concetto di 'pregiudizio', raccontare la storia di quel bambino effeminato che si lasciò morire nella neve per 'risvegliarsi quando il mondo sarebbe stato migliore', per creare subito una situazione di disagio, di attenzione massima, di comprensione dell'orrore che può stare dietro la leggerezza. Sì, perché la leggerezza di una battuta, di una barzelletta, di una tastata all'orecchio sono cose che possono uccidere dentro, soprattutto un bambino.
Voglio raccontarvi una fiaba, una fiaba che invento oggi, in questa tristezza, perché torni a splendere il sole per tutti i bambini e le bambine che saranno uomini e donne omosessuali. Perché è da loro, come dico sempre, dalle loro fondamenta che costruiremo un mondo migliore: anzi, offriremo loro i materiali perché loro costruiscano un mondo migliore del nostro.
- Questa è la storia di una principessa che si innamorò di un'altra principessa.
- Come maestro?
- Avete capito bene.
- Non è possibile. Ci vuole un principe.
- Non c'è. Stavolta la storia va così. Ascoltatemi.
- Maestro che schifo. No, no e poi no: due donne, ti pare?
- Posso procedere? Ascoltate. Poi alla fine direte che schifo se avrete provato schifo. Se no, magari, cambierete opinione. Bene. In un lontano paese, su una collina tonda come una fetta d'anguria, sorgeva un castello bianco come l'avorio. I contadini avevano arato i campi sulla collina in modo così ordinato e preciso, che a guardarla da lontano sembrava fatta di mille pezze di stoffe rigate. Anche il castello era tenuto benissimo, aveva un bel giardino con le aiole fiorite e c'era una grande pulizia. Governava quel paese una brava principessa di nome Ipazia.
- Oh che nome è?
- Un nome antico. Ipazia governava con molta saggezza anche se era giovane. Quando aveva un dubbio, non si vergognava e chiedeva consiglio. E' questa la vera saggezza: saper chiedere consiglio senza aver mai la presunzione di sapere tutto. Ora dovete sapere che Ipazia doveva sposarsi. Così era stabilito dalla legge dei castelli. Un vero castello che si rispetti deve avere un principe ed una principessa che lo governano.
"Dovete sposarvi, principessa!" le diceva il grande consigliere di corte. Ma Ipazia sorrideva e scuoteva la testa.
"Nona ancora, non ancora..." aggiungeva sorridendo.
Dopo l'ennesima insistenza, la principessa acconsentì a conoscere dei pretendenti. Giunse il Principe azzurro, ma Ipazia lo trovò melenso; venne il Principe Rosso, ma le sembrò altezzoso; quello Verde era fissato col cibo vegano e Ipazia pensò che non fosse il caso; il Principino Bianco era biondo e si guardava nello specchio di continuo; quello Nero aveva un modo di fare autoritario e lei amava la gentilezza. Insomma, alla fine, li rimandò tutti a casa.
"Vedete principessa, ora il regno è di nuovo senza un principe" disse il Consigliere.
"Lo so, buon uomo, ma che ci posso fare se quei principi non mi hanno acceso il cuore?"
Ora avvenne che dopo qualche giorno, sulla strada delle rose che correva nella valle sotto la collina, passò un corteo di cavalieri e dame. Trenta carrozze variopinte scorrevano una dietro l'altra. Il messaggero di quel corteo salì al castello per chiedere ospitalità per la notte. Figuratevi voi, bambini, se una persona gentile come Ipazia poteva rifiutare una simile cortesia. Fu così che le trenta carrozze salirono la collina e furono ospitate. Alla testa della corte c'era una principessa, Malvina del reame di Perdilà.
- Oh maestro, ma che nomi hanno queste principesse?
- Ma proprio te, che ti chiami Gualtiero, vuoi sindacare sui nomi?
- Hai ragione.
- Ascolta, ascolta... Malvina era stata scacciata dal suo regno. Un principe autoritario, il Cavaliere Spocchioso, si era presentato per sposarla ma lei lo aveva rifiutato. Allora lui, offeso, pensando che tutte le donne del mondo dovessero cadere ai suoi piedi, mosse guerra al Regno di Perdilà e lo conquistò.
"Ora che ho il tuo regno, sposami!" le aveva gridato ma lei, scuotendo la testa, gli rispose:
"Manco per sogno, brutto maleducato. Avrai pure il mio regno ma non me. " E detto questo, con tutta la sua corte, se ne era andata via .
Ipazia si commosse molto sentendo la storia di Malvina. Inoltre, come la principessa del Regno di Perdilà era entrata nel castello, il suo sorriso, quei capelli rossi come fuoco, il profumo dolcissimo della sua pelle le avevano spalancato il cuore. Ed anche Malvina, piena di gioia nell'essere accolta così cordialmente, si sentì emozionare quando vide le gote rosa di Ipazia, le sue mani gentili, le labbra di fragola e i capelli biondi come il grano.
"Rimani qui!" propose Ipazia a Malvina "Regniamo insieme su questo reame!"
Malvina ci pensò un attimo e poi si sentì riempire di gioia.
" Sovvertiamo le leggi dei castelli. Qua regneranno due principesse!" Esultò Ipazia e il gran Consigliere si sentì morire. Le due principesse non solo regnarono con giustizia, ma erano così innamorate l'una dell'altra che la loro felicità si espandeva intorno, sui campi, sul reame intero, sugli abitanti. Insomma, se già il Castello sulla Collina era stato un luogo bello come pochi, ora lo era ancor di più.
"Dovrete dare un erede al trono " si lamentò un giorno il Consigliere ma Malvina e Ipazia non temevano. Sapevano che un fanciullo era stato abbandonato qualche giorno prima nei campi della valle da una coppia di briganti. Il parroco del paese se ne stava occupando. Lo adottarono e lo fecero crescere con loro, educandolo al rispetto e alla generosità. Un domani lui avrebbe retto le sorti del regno.
Venuti a sapere della storia delle due principesse, i principi scartati si sentirono offesi. Chiamarono in aiuto il Cavaliere Spocchioso e tutti assieme andarono all'assalto del castello. Ma quando arrivarono ai piedi della collina, trovarono tutti i sudditi armati di pentole, vanghe, piccozze e aste ad aiutare i soldati di guardia che mostravano alabarde minacciose.
" Andatevene, le nostre principesse regnano così bene e in così bella armonia, che non abbiamo bisogno di voi!"
Spaventati da tutto quell'armamentario, i principi e il Cavaliere fecero dietrofront e non tornarono mai più.
Ipazia e Malvina regnarono per molti anni e assieme al loro bambino e a tutti i sudditi, vissero felici e contente.
Silenzio
- Allora, ancora ti fa schifo la questione?
- Mmm, non so, ci devo pensare.
- Beh, è già qualcosa.
- Ma Maestro, scusa, ma proprio nessuno di quei principi le era piaciuto? Nemmeno uno? Neanche un pochino?
- No, e sai perchè?
- No che non lo so.
- Perché il cuore di Ipazia, come accade per il cuore di ciascuno di noi, stava aspettando. Aspettava un'emozione così bella e forte capace di aprirlo. E solo una persona poteva farlo, ovvero quella giusta.
- E la persona giusta era Malvina.
- Esatto. Ognuno attende la persona giusta, la cerca, prova varie strade. Ma se non mente a se stesso e segue la strada dove il suo cuore lo porta, la troverà.
- Anche la strada di Malvina doveva incontrare quella di Ipazia.
- Bravo, vedo che hai capito. Non potevano esserci principi per Ipazia o Malvina, i loro cuori erano pronti ad accogliere uno quello dell'altra. Erano nati per seguire regole diverse da quelle che la sciocca legge dei Castelli aveva imposto.
- Che legge stupida.
- Davvero. Può una legge, può una religione, può qualcuno imporci chi amare?
- Nooooo.
- E allora, ora vi chiedo: vi fa ancora schifo la mia storia di una principessa che si innamorò di un'altra principessa?
- No, maestro - dice Lucilla e ha occhi lucidi. A Lucilla piace giocare a calcio e a volte le fanno notare che è un po' maschiaccio. - E' bellissima questa storia.
Ed io abbraccio Lucilla e con lei tutte le persone che, in un domani diverso, governeranno colline di gentilezza e rispetto.
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